In Occidente ci sentiamo sempre più soli
La teoria svedese dell'amore

Da Yanez.

Primi piani di giovani uomini in una stanza bianca. Li sentiamo descrivere la loro visione della vita. Kenn dice: “Tutti facciamo parte della grande coscienza universale e dovremmo impegnarci per realizzare il completo potenziale umano”. Birge è più pragmatico. “Io? Io non sono una persona complicata. Sono focalizzato sul mio lavoro e voglio aiutare gli altri, fare la differenza nella vita di qualcuno”.
Nascosta alla telecamera, la loro mano destra è inequivocabilmente impegnata in un autoerotico avanti e indietro.
La musica di sottofondo scandisce la meccanicità del gesto, da un’altra inquadratura si intravedono le scene del filmato pornografico che viene proiettato nella stanza, intanto l’espressione facciale passa gradualmente dall’affanno iniziale all’inebetimento postumo. La masturbazione culmina in modo mesto, sulle note di una poco appropriata marcia trionfale.

Questa è una delle prime provocatorie scene del film del regista italiano Erik Gandini, The Swedish Theory of Love. I giovani uomini sono donatori di sperma per la Cyros, la banca del seme più grande del mondo. Nel mirino di Gandini, già autore di Videocracy, c’è il sistema politico e sociale svedese, il quale costituirebbe la più efficiente applicazione pratica dell’ideologia individualistica che nell’ultimo paio di secoli ha pervaso l’Occidente.

Ora facciamo un passo indietro di una quarantina d’anni.

Svezia, inverno 1972. La sezione femminile del partito socialdemocratico, allora guidato dal primo ministro Olof Palme, promuove una nuova politica familiare, sintetizzata sotto al manifesto The family of the future – a socialistic family policy. Alla base, il sogno socialista di un individualismo radicale, reso possibile da organismi statali posti alla salvaguardia di tale autonomia. Lo scopo è preciso: liberare gli individui dagli opprimenti legami familiari tradizionali. Tutte le relazioni umane, per essere autentiche, si devono basare sulla fondamentale indipendenza delle persone in esse coinvolte. La donna deve essere resa indipendente dall’uomo, l’anziano dai parenti, il figlio dai genitori. Nasce così quella che gli storici Lars Trägårdh e Henrik Berggren hanno denominato The Swedish Theory of love.

In Svezia coloro che decidono di vivere da soli costituiscono quasi la metà della popolazione.
Il dato più rappresentativo della situazione, però, riguarda la popolazione anziana.
Un quarto degli svedesi muore da solo, senza aver vicino nessun parente.

Nell’omonimo documentario, Gandini, che in Svezia ha vissuto per trent’anni, ne esplora le conseguenze.

Il documentario si apre con la scena di una donna che fa jogging. Maria Helena sarà la destinataria dello sperma di Kenn, di Birge, o di un altro dei tantissimi donatori della Cryos. Deciderà lei chi sarà l’eletto dal comodo di casa sua, ascoltando dal suo laptop le registrazioni audio dei candidati. Il kit di inseminazione artificiale fai da te arriverà nell’arco di uno o due giorni lavorativi e la donna potrà ultimare il tutto in casa, da sola. Il modo in cui Gandini ricrea la scena della fecondazione riesce nell’intento di comunicare ironicamente il lato grottesco della tecnicizzazione del concepimento, così sradicato dal territorio dell’intimità. Descrizioni procedurali specialistiche affiancano i movimenti meccanici dell’attrice che simula l’atto, mentre una colonna sonora fatata e soave, in contrapposizione con lo spettacolo, crea un’aura di disagio. È proprio questa nota surreale la cifra e la forza del film. Gandini riesce ad esprimere attraverso un raffinato montaggio di immagini e suoni l’idiosincrasia tra l’ideale della perfezione svedese e la realtà di un tessuto sociale sfibratissimo.

Maria Helena non è un caso raro, anzi. La metà dei clienti della Cryos sono donne single e in Svezia coloro che decidono di vivere da soli costituiscono quasi la metà della popolazione.
Il dato più rappresentativo della situazione, però, riguarda la popolazione anziana.
Un quarto degli svedesi muore da solo, senza aver vicino nessun parente. Ciò ha generato una realtà dal sapore quasi distopico, caratterizzata da un vero e proprio abbandono degli anziani, la cui morte in alcuni casi viene scoperta dopo mesi o addirittura anni dall’evento: le loro bollette continuano ad essere pagate automaticamente e non esiste alcun altro segno che, nell’isolamento relazionale, indichi la scomparsa dell’individuo. La situazione ha assunto una portata tale da indurre il governo ad istituire degli uffici appositamente dedicati al disbrigo delle pratiche burocratiche legate al post-decesso. Team di investigatori perquisiscono gli appartamenti in cerca di indizi riguardo l’eredità ed eventuali parenti da poter contattare, in alcuni casi trovando conti bancari ancora cospicui. Un assistente sociale commenta: “Cosa me ne faccio di un milione di euro in banca, se non sono felice?”.

Questo è il punto in cui il documentario di Gandini va maggiormente a segno, ovvero il ritratto dell’isolamento cui le misure politiche degli ultimi anni hanno portato. Situazione attuale non solo in Svezia, ma nel Nord Europa in generale. Secondo il sito helsenorge.no, più di un norvegese su cinque si sente solo, non ha nessun amico con cui parlare o a cui rivolgersi in caso di bisogno. In Svezia la consuetudine è costituita dalle cosiddette relazioni LAT, living apart together, per le quali gli incontri sociali avvengono generalmente nel fine settimana ed ognuno conduce la propria vita nel chiuso del proprio appartamento.
E il problema non è solo degli svedesi, riguarda anche i centinaia di immigrati che regolarmente raggiungono la Scandinavia, attirati soprattutto dalle sue politiche di welfare. Lo scontro culturale è forte. Per esseri umani sfuggiti all’atrocità della guerra ed abituati ad esistere in una dimensione comunitaria molto forte, è un nuovo trauma doversi reinserire in un contesto dove si devono rispettare delle regole relazionali basate essenzialmente sulla distanza e il rispetto dell’autonomia altrui.

Ma attenzione, autonomia non significa necessariamente isolamento. Qui Gandini slitta semanticamente e dà un’interpretazione semplicistica di una realtà molto più complessa. Per comprendere ed inquadrare il fenomeno svedese si deve allargare la visuale ed esplorare concetti vasti come individualismo e comunitarismo, collocandoli socialmente e storicamente.

Tornerò su questo punto più avanti, per il momento vediamo come prosegue il film.

L’ambientazione di The Swedish Theory of Love, nella seconda parte, si sposta in Etiopia. Gandini prende l’Etiopia come controesempio del sistema sociale svedese perché essa si appoggia ad un sistema di valori opposto nella mappa delle culture di Inglehart–Welzel. Secondo i due politologi esistono due dimensioni culturali che caratterizzano tutte le società del mondo: una dimensione è data dalla contrapposizione tra valori di sopravvivenza (ad esempio sicurezza fisica ed economica) e valori di espressione del sé (ad esempio libertà di parola e riconoscimento delle minoranze), l’altra dimensione dalla contrapposizione di valori tradizionali (come credenze religiose e legami familiari) e valori razionali-secolarizzati. Si capisce meglio vedendola.

La Svezia scorrerebbe alto in valori di espressione del sé e secolarizzati, l’Etiopia invece in valori di sopravvivenza e tradizionali.
Una classificazione di questo tipo, almeno alla mia sensibilità, appare piuttosto riduttiva e possibilmente tendenziosa, soprattutto considerando che termini come “razionale” e “espressione del sé” sono stati definiti da occidentali, i quali si sono auto-conferiti tali caratteristiche. Ma guardiamo al concetto di fondo: se la Svezia costituisce un esempio di società individualistica, l’Etiopia costituisce un esempio di società comunitarista. Si tratta di un’osservazione del tutto legittima, ma, nel tentativo di screditare l’individualismo europeo, la narrazione di Gandini va a parare in una descrizione del comunitarismo semplicistica, intingendo l’Africa di tinte romantiche di rousseauiana memoria. Ecco quello che il documentario ci presenta:

Erich Erichsen è un chirurgo, dopo 30 anni di lavoro in Svezia si trasferisce in Etiopia. Ci racconta come le persone in Africa non siano mai sole, né nella vecchiaia né nella malattia. Lo vediamo poi al lavoro operando con mezzi di fortuna, come trapani e parti di ricambio delle biciclette, in un ospedale dove la corrente se ne va nel mezzo di un intervento. Un montaggio delle scene veloce ed una musica allegra riescono quasi a far simpatizzare con una situazione di per sé tragica nella realtà. Ci spostiamo poi di nuovo in Svezia, dove invece apparentemente negli ospedali “si annega nella burocrazia”. Ovviamente si tratta di un’altra esagerazione, ma questa volta stenta ad andare a segno. Il documentario prosegue in Africa, con una carrellata di scene che descrivono momenti di condivisione.

Il problema con cui Gandini si scontra, è l’idealizzazione di una cultura a scapito di un’altra – anche in modo non strettamente necessario ai fini dell’economia della narrazione – lanciando una provocazione che però non conduce ad una soluzione convincente. Cosa dovremmo fare? Ritornare a valori familiari tradizionali? Ignorare il fatto che in Etiopia non esista nessuna parità dei sessi e che ancora si pratichi la mutilazione genitale?

Il documentario si conclude con un intervento di Zygmunt Baumann. Una vita felice significa lottare contro i problemi, risolvere i problemi, significa sfida. Questo si è perso nel comfort dell’isolamento e del benessere. Si è persa la capacità di negoziare, non si possiedono più strumenti di socializzazione. L’interdipendenza richiede attenzione e sforzo, una continua comunicazione, l’accettazione del rischio. Nell’era dell’indipendenza, per Baumann, c’è la vuotezza della vita.

The Swedish Theory of Love, anche se in alcune parti un po’ naïve, ha il merito di sollevare una questione centrale, ovvero la necessità di una dimensione comunitaria in una società occidentale che ha il suo perno nell’individualità.

Facciamo un po’ di chiarezza. Con individualismo, oggi, intendiamo una posizione morale, una filosofia politica, un’ideologia o prospettiva sociale che sottolinea il valore morale dell’individuo in se stesso, considerandolo irriducibile al ruolo che ricopre in un qualsiasi gruppo o società. Sono esempi di individualismo il liberalismo classico, il libertarianismo, l’esistenzialismo e l’individualismo anarchico.
Individualismo si contrappone a collettivismo, che invece pone al centro della riflessione gli interessi primari del gruppo o della comunità di cui l’individuo è parte.

E ora facciamo un altro passo indietro, questa volta di qualche secolo.

L’individualismo, lungi dall’essere un impianto teorico da sempre esistito, è un fenomeno relativamente nuovo, le cui origini, anche se difficili da collocare esattamente, possono essere rintracciate nell’Illuminismo.

Prima di qualche secolo fa, non esisteva un’accezione di individualismo così come noi lo intendiamo, basti pensare che il termine è stato introdotto nel linguaggio per la prima volta nel 1800. Anche nella Grecia Classica, nella quale l’individualismo occidentale odierno affonda pur sempre le sue radici, non esisteva una concezione di individuo slegato dal gruppo, dalla polis, dalla vita politica. Sottomettersi alle necessità della città era l’unica ragione di esistenza e chi se ne sottraeva poteva essere ucciso o – ancor peggio per quei tempi – esiliato. Per la maggior parte della sua esistenza su questo pianeta, l’uomo non ha posseduto una concezione di sé indipendente ed unitaria, o l’ha posseduta in una forma estremamente flebile.

Bisogna quindi fare un salto nel diciassettesimo secolo per rintracciare i germi dell’individualismo. Sono tante e parallele le cause che contribuiscono al suo sviluppo. Socialmente, lo sfaldarsi delle strutture politiche medievali; in economia, il crescere dei commerci, che fa emergere una classe media di mercanti, proprietari terrieri e artigiani, i quali promuovono la proprietà privata e inizializzano l’accumulazione individuale di capitale. Negli stessi anni Hobbes, considerato il più importante diretto antecedente del moderno liberalismo, partorisce il Leviatano, dove ascrive a tutti gli individui una naturale libertà solo per il fatto di essere individui. Sulle sue orme, Spinoza, Locke e Bentham esploreranno ulteriormente il concetto.
Passando al campo religioso, qualche anno prima, la riforma luterana aveva rivoluzionato il mondo del credo, legittimando il singolo a leggere la Bibbia e a parlare con Dio senza l’intercedere della chiesa.

In generale, tutto l’Illuminismo può essere letto come un grandioso tentativo di ribellione contro vincoli sociali troppo stretti e contro una supremazia – ecclesiastica e statale – eccessivamente invadente. L’antidoto più potente all’autorità, filosoficamente e politicamente, si rivela essere l’affermazione del sé.

L’individualismo che oggi caratterizza l’occidente non è altro che il radicamento e la radicalizzazione di questi fenomeni che si sono sviluppati, accavallati, estremizzati e scomposti in una serie di altri sotto-fenomeni. Le sue espressioni sono tantissime: il Romanticismo ottocentesco che mette la solitudine dell’uomo in rapporto con la natura, il capitalismo e il successivo consumismo di massa, l’esistenzialismo e la ricerca dell’autenticità, il movimento bohemien, i governi liberalisti Reagan e Thatcher, con la Thatcher che nell’81 dichiara “What’s irritated me about the whole direction of politics in the last 30 years is that it’s always been toward the collectivist society”.

Non ha importanza in questa sede ricostruire tutto il processo, quello che voglio far notare è come l’individualismo di cui Gandini parla sia un qualcosa di contingentestoricamente e geograficamente collocato e il risultato di una ribellione necessaria per superare una determinata situazione storica. Nel corso dell’ultima manciata di secoli ha interessato così tanti rami del sapere, da diventare lo Zeitgeist di un’epoca e di un luogo.

Concetti come “comunità” e “famiglia” sono, come d’altronde tutti i concetti, relativi storicamente e geograficamente. Oggi, dopo essere stati rifiutati e fatti un po’ a pezzi, hanno bisogno di essere rinegoziati.

Ma si sa, tutti i fenomeni seguono una traiettoria e tutti gli Zeitgeist fanno il loro tempo.

Oggi, credo che la traiettoria dell’individualismo radicale abbia iniziato a seguire una parabola discendente e che un nuovo Zeitgeist sia pronto a prendere il posto di quello vecchio.

I principali motivi sono due:

Il primo, è di carattere teoretico. Penso che sia sempre di fondamentale importanza tenere a mente le ragioni che hanno portato alla nascita di un determinato sistema di pensiero. Quando il sistema non soddisfa più quelle ragioni, oppure esse hanno lasciato il posto a nuove esigenze, allora il sistema diventa obsoleto. Chiediamoci, quali sono i problemi più impellenti che oggi devono essere affrontati? A me ne vengono in mente subito due, senza bisogno di pensarci troppo: il surriscaldamento globale e la crisi dei migranti. Chiediamoci ancora, quale sistema ideologico è più utile a gestire tali problemi, uno incentrato sul valore del singolo, oppure uno incentrato sul valore della collettività? Lascio a voi tirare le somme.

Il secondo motivo per cui credo che l’individualismo sia in crisi, è legato all’effetto che ha prodotto nel nostro privato e nel nostro modo di vivere la socialità. A partire dagli anni ‘60, i movimenti di affermazione del sé hanno portato a conquiste incredibili nell’ambito dei diritti umani, delle politiche di genere, del femminismo, dell’autodeterminazione, ma allo stesso tempo hanno causato una deteriorazione dei tessuti relazionali tradizionali, in primis quello della famiglia. In altri casi, come Gandini ha documentato, le politiche volte a realizzare gli ideali individualistici hanno condotto ad un eccessivo isolamento, il quale necessariamente dà luogo a depressione, ansia, abbandono. Per dirla con Baumann, infelicità. Un individualismo esteso ad ogni ambito della nostra esistenza comporta dei danni anche in relazione alla nostra intelligenza pratica e alla costruzione della nostra personalità. C’è una grande mole di studi al riguardo, forse i più famosi recentemente sono quelli di Putnam e Fukuyama.

Con ciò non voglio sostenere che individualismo per forza si debba tradurre in isolamento, o che le battaglie per l’affermazione del sé abbiano fatto il loro corso (anzi, credo e spero siano solo all’inizio). Penso, invece, che ad una fase prevalentemente decostruttiva si debba affiancare una fase costruttiva. Concetti come comunità e famiglia sono, come d’altronde tutti i concetti, relativi storicamente e geograficamente. Oggi, dopo essere stati rifiutati e fatti un po’ a pezzi, hanno bisogno di essere rinegoziati. Li dobbiamo rielaborare, riadattare, dobbiamo farli nuovamente nostri dando loro altre forme.

In verità, questo sta già succedendo. Il nostro bisogno di socialità e di appartenenza fluisce creando nuovi modi di aggregazione, dai social network (per quanto problematico sia il concetto di virtualità quando si parla di comunità) alla share economy, dalle teorie della decrescita fino alle nuove forme dell’abitare, come il social housing. Chi, come me, vive all’estero, forse è più sensibile nello scorgere tali cambiamenti, perché fa parte di quel processo di migrazione/mobilità che ha ricoperto un ruolo fondamentale nel metterli in atto. Ho guardato The Swedish Theory of Love in un centro culturale a Berlino, creato per dare ai migranti un luogo dove ritrovarsi, dove sentirsi a casa. Ecco che lo stesso concetto di casa si plasma e si arricchisce di nuove sfumature. Anche in filosofia a partire dagli anni ‘70 è cresciuto il numero di chi si è interessato a teorizzare una cosiddetta terza via. Tra gli esponenti più influenti ci sono Sandel e soprattutto McIntyre, che reinterpretano i temi del comunitarismo filosofico, come la critica di Hegel e Marx all’illuminismo, e riprendono l’aristotelismo. Senza spostarsi così lontano, in Italia Costanzo Preve dà un contributo importante, cercando anche politicamente di superare la dicotomia destra/sinistra. E infatti nella questione anche la politica ha un’importanza centrale. La deriva nazionalista degli ultimi anni può senz’altro essere letta anche come un tentativo di colmare quel desiderio di appartenenza che la società non soddisfa più.