Quelle sinistre che odiano il popolo. Contro l’ideologia del politicamente corretto

Da L’Interferenza.

Il saggio di Jonathan Friedman contro il politicamente corretto (Politicamente corretto. Il conformismo culturale come regime, Meltemi editore) può essere nato da un’occasione contingente (il risentimento per le accuse di razzismo rivolte alla moglie – antropologa come lui – “colpevole” di avere sostenuto che in alcune comunità di migranti africani persistono credenze tribali), e qualcuno potrebbe rimproverargli di essersi eccessivamente concentrato sulla realtà svedese, ma nessuno può negargli il merito di avere magistralmente messo a nudo la dinamica e le radici di un fenomeno che ha contribuito in misura significativa alla mutazione genetica delle sinistre occidentali (e non solo di quella svedese). Il suo lavoro è di importanza pari a quella di autori come Boltanski e Chiapello (cfr. Il nuovo spirito del capitalismo, ancora Meltemi), che hanno analizzato l’integrazione delle culture sessantottine nelle politiche aziendali del capitalismo postfordista, e di Nancy Fraser (vedi, fra gli altri, un suo recente articolo), la quale ha evidenziato la convergenza fra correnti mainstream del femminismo e ideologia neoliberista.

Per esporre le tesi del libro non ne rispetterò la struttura espositiva ma seguirò un percorso in sei tappe: l’”ibridismo” come collante ideologico della politically correctness; le giustificazioni filosofiche del politicamente corretto; gli interessi di classe che la sfruttano come strumento di un progetto egemonico; l’ideologia politicamente corretta come dispositivo per la ridefinizione del nemico; élite transnazionali versus popolazioni locali e totalitarismo globalista; considerazioni conclusive: il politicamente corretto è un attacco alla civiltà moderna o un sintomo della sua natura autodistruttiva?

Tratterò insieme i primi due punti in quanto appaiono strettamente intrecciati. Essi sono infatti il prodotto di due processi che si sono sviluppati parallelamente per poi convergere. Da un lato, le sinistre post sessantottine hanno abbandonato il concetto di lotta di classe e i progetti di trasformazione sociale, spostando progressivamente il proprio impegno sul terreno della lotta culturale e dell’identificazione di sé, (le cause di tale evoluzione, ben descritta da Boltanski e Chiapello, sono molteplici e complesse, ma personalmente ritengo che a svolgere un ruolo decisivo siano stati il contraccolpo delle sconfitte subite negli anni Settanta e l’influenza esercitata dai movimenti femministi attraverso le pratiche di autocoscienza e il principio del “partire da sé”). Dall’altro lato, la svolta linguistica delle scienze sociali, innescata da teorie postcoloniali, gender e cultural studies e altre discipline accademiche emergenti, svolta che, unitamente all’enorme prestigio acquisito dal pensiero di autori come Michel Foucault e Gilles Deleuze, ha ipertrofizzato il ruolo del discorso, delle narrazioni, che ha elevato a fattori strategici della dinamica del potere e della sua distribuzione sociale.

L’effetto combinato di questa duplice evoluzione fa sì che, oggi, la maggioranza di coloro che si dichiarano progressisti pensino che non esistono fenomeni sociali “oggettivi”, dotati di realtà autonoma, ma solo “regimi di verità” generati dal linguaggio. La teoria degli atti linguistici (vedi l’uso che ne fece, fra gli altri, Jean-François Lyotard ne La condizione postmoderna) è diventata la bibbia delle scienze sociali, al punto che l’atto del denotare viene concepito come qualcosa che crea la realtà piuttosto che rappresentarla. Questa convinzione sta alla radice dell’orrore che intere generazioni di giovani intellettuali e militanti provano nei confronti del “sostanzialismo” del pensiero novecentesco, della sua fede nell’esistenza di categorie e identità reali e oggettive; per costoro il pensiero moderno incarna la tirannia di categorie che inchiodano i soggetti individuali e collettivi a identità predefinite. Questo atteggiamento attinge esiti estremi nella gender theory e nel pensiero di autrici come Judith Butler, che esaltano il nomadismo, l’ibridismo e il meticciato fra generi e culture e sostengono che le identità possano divenire il prodotto di libere scelte individuali, sempre reversibili (per inciso, questo non vale solo per i singoli ma anche per le identità collettive: alle weberiane “comunità di destino” si contrappongono le comunità “elettive”). I nuovi eroi di questa cultura sono i trans (termine da intendere in senso lato, non solo sessuale) e i migranti (quelli consapevoli e volontari, non quelli spinti dalla fame e dalla disperazione). Quest’ultima visione trova espressione nei saggi dell’antropologo indiano Arjun Appadurai, il quale esalta il cosmopolitismo di comunità nomadi che rimpiazzano le obsolete identità nazionali, etniche, culturali, dando vita a inedite combinazioni ibride che prefigurano l’avvento del “cittadino del mondo” (vedi, in merito, le tesi del sociologo tedesco Ulrich Beck).

Friedman non si limita tuttavia a descrivere queste tendenze culturali: ne analizza le implicazioni morali. Se si presume che l’atto di definire/denotare persone, culture, fenomeni, comunità, popolazioni, ecc. comporti “costruirne” l’identità e condizionare ciò che questi soggetti possono/devono fare, se si presume cioè che sia in primo luogo il linguaggio a detenere il potere di istituire gerarchie sociali, allora chi vuole sottrarsi all’ordine gerarchico dovrà a sua volta utilizzare il linguaggio come strumento contro egemonico (per inciso, urgerebbe riscattare il povero Antonio Gramsci dal tentativo di farne il precursore di questa visione). È qui che entra trionfalmente in scena il politicamente corretto: nel momento cioè in cui ci si propone di sfruttare le strategie di definizione come armi per distinguere il buono e il vero dal malvagio e dal falso. È a partire da questo momento che il catalogo delle parole “pericolose” si arricchisce a ritmo esponenziale, esponendo chiunque ne faccia uso all’infamante accusa di essere, a seconda del contesto e delle circostanze, razzista, fascista, sessuofobo, omofobo. A mano a mano che l’etica del politicamente corretto si diffonde e viene adottata da intellettuali, media, élite politiche ed economiche, uomini e donne di spettacolo, queste accuse non hanno nemmeno più bisogno di essere sostenute da argomenti o prove, perché pretendono di asserire verità evidenti e assolute.

Friedman nota giustamente che questi giudizi morali finiscono paradossalmente per cadere a loro volta nel peccato di essenzialismo che i loro promotori rimproverano alle categorizzazioni novecentesche: se ieri i militanti di sinistra bollavano come piccolo borghesi gli appartenenti alla classe media, oggi se sei maschio, bianco, di mezza età ed eterosessuale esiste un’elevata possibilità che tu sia razzista, sessista, omofobo, in base a una logica “associazionista” che si fonda su un repertorio predefinito di falsi sillogismi. Si potrebbe dire, commenta ironicamente Friedman, che Orwell aveva anticipato la filosofia del politicamente corretto. Personalmente chiamerei in causa altri due autori: Isabelle Noelle Neumann, la sociologa tedesca che ha inventato il concetto di “spirale del silenzio”, con il quale si riferisce al fatto che le persone tendono a esprimersi in modo conforme alle opinioni della maggioranza per paura di subire sanzioni morali, e Max Weber la cui definizione del concetto di potere appare straordinariamente simile a quella che Friedman usa per descrivere la modalità con la quale ci si adatta alle opinioni “corrette”, modalità che consiste nell’”introiettare i giudizi morali altrui come se fossero propri”.

È arrivato il momento di sollevare un interrogativo cruciale: chi è il soggetto di questa operazione “contro egemonica”? Quali sono gli interessi in campo? Chiariamo subito che non si tratta qui di “smascherare” cosa e chi “si nasconde” dietro al politicamente corretto, applicando la categoria di “falsa coscienza” nel modo classico del marxismo volgare, bensì di capire come e perché questa mutazione culturale abbia potuto imporsi, di analizzare quali strutture socioeconomiche (quali “interessi di classe”, si sarebbe detto un tempo) ne hanno accompagnato e favorito la diffusione. A questi interrogativi Friedman risponde affermando che il politicamente corretto è connesso alla globalizzazione delle élite, dalla quale discende l’esigenza di costruire un mondo multiculturale e transnazionale. Forse nel suo lavoro manca un’analisi dettagliata del “blocco sociale” (e delle sue gerarchie interne) di cui sono fatte queste élite, tuttavia non bisogna dimenticare che Friedman non è un sociologo né un economista e, in ogni caso, riesce a tracciare un quadro sia pur semplificato delle forze in campo. Cita, per esempio, l’esigenza delle grandi imprese di promuovere la mobilità internazionale, sia per importare forza lavoro a buon mercato, sia per andare a cercarla altrove; sottolinea come tale pratica abbia contribuito a distruggere i rapporti di forza delle classi lavoratrici occidentali, livellandone verso il basso redditi e condizioni di lavoro e di vita e alimentando tensioni fra autoctoni e immigrati (e in questo contesto il politicamente corretto funziona come un’arma per bollare come razzista il risentimento dei primi nei confronti dei secondi, distogliendo l’attenzione dalle cause reali della rabbia operaia).

L’altro pezzo di élite cui Friedman rivolge la propria attenzione coincide con la “classe creativa”: il mondo degli analisti simbolici, la nuova classe manageriale che si muove e pensa velocemente, le élite mediatiche e accademiche che svolgono un ruolo essenziale nella fondazione del nuovo regime di legittimità. Gli antenati di questi strati socioprofessionali, negli anni Sessanta e Settanta del Novecento, furono il terreno di coltura degli intellettuali di opposizione, i loro nipoti, al contrario, sfornano un nuovo tipo di “intellettuale organico” i cui interessi convergono con quelli delle élite emergenti. La Silicon Valley e gli altri distretti dove si concentrano i settori più innovativi dell’economia e della finanza mondiali sono i luoghi in cui questa sinergia di interessi fra neocapitalismo e classi medie colte emerge con chiarezza. Basti pensare alla solerzia con la quale imprese come Google, Apple e Facebook si fanno promotrici dei principi del politicamente corretto, esaltando le pari opportunità di carriera che vengono offerte ai propri dipendenti e collaboratori a prescindere dalle appartenenze etniche, di genere, preferenza sessuale, ecc. e sanzionando duramente l’uso di linguaggi “inappropriati” al proprio interno (Nancy Fraser sostiene come è noto che è precisamente su tale terreno – sul terreno cioè della convergenza fra emancipazionismo e meritocrazia – che il femminismo mainstream si allea con i settori innovativi del capitalismo).

Del ruolo svolto dalla classe politica, mi occuperò poco più avanti, esaminando il tema del conflitto fra “globalisti” e “localisti”. Prima richiamerò brevemente come Friedman descrive il modo in cui le sinistre “progressiste” stanno riconfigurando l’immagine del nemico: dimentiche delle antiche celebrazioni dei movimenti di liberazione nazionale, bollano qualsiasi forma di nazionalismo come fascismo, al punto che perfino gli atteggiamenti positivi nei confronti della propria identità culturale vengono percepiti come negazione della ineluttabilità di un futuro cosmopolita, quindi sostanzialmente reazionari (in base a tale criterio, commenta ironicamente Friedman, Levi Strauss, il quale aveva affermato che “le culture, ognuna delle quali collegata a un proprio stile di vita e sistema di valori, enfatizzano le proprie peculiarità, e questa è una tendenza sana, non patologica, come vorrebbero farci credere”, rischierebbe oggi di essere accusato di fascismo). Di più: offese dalle reazioni delle classi lavoratrici contro la svolta liberista – associata alla Terza Via imboccata dai vari Clinton Blair, Giddens – le socialdemocrazie insultano la loro ex base sociale come retriva, conservatrice, di destra, ribadendo che essere di sinistra vuol dire oggi in primo luogo difendere i diritti civili di individui e minoranze culturali. Né sono solo i socialdemocratici a disprezzare gli “sdentati” (insulto che il presidente socialista Hollande ha rivolto ai lavoratori francesi): anche gli intellettuali di sinistra radicale, dopo la vittoria di Trump negli Stati Uniti e l’esito del referendum inglese sulla Brexit, hanno manifestato odio e disprezzo per quel “popolo demente” (parole di Franco Bifo Berardi, al quale dobbiamo anche il neologismo “nazional operaismo”) che aveva effettuato certe scelte elettorali; anche loro si arruolano, assieme ai liberali di destra, centro e sinistra, nel fronte unito contro il “populismo” – categoria in cui vengono associati ed equiparati movimenti diversi o addirittura ideologicamente opposti, accomunati esclusivamente dall’odio nei confronti delle élite. Applicando la logica “associazionista” di cui sopra, gli elettori vengono identificati con i personaggi che hanno votato, rimuovendo il fatto, come ricorda Andrew Spannaus (cfr. La rivolta degli elettori, Mimesis), che la maggioranza degli elettori di Trump dichiara di averlo votato non perché è razzista, omofobo, sessista, ecc. ma malgrado queste sue caratteristiche, in odio a una candidata come la Clinton, considerata ancor più vicina di Trump agli interessi dell’1% dei super ricchi.

Veniamo ora al conflitto globale/locale e al ruolo delle élite politiche. Friedman espone in modo semplice quanto efficace le ragioni di un sovranismo di sinistra non equiparabile ai tradizionali nazionalismi di destra. Lo stato nazione che ha senso difendere, scrive, non è tanto il vecchio stato nato dalle rivoluzioni borghesi, quanto quel progetto di cittadini, della popolazione di un territorio che cerca di ottenere il controllo sulle proprie condizioni di esistenza e riproduzione, un progetto storicamente recente, scaturito dai rapporti di forza che le classi lavoratrici hanno saputo conquistare nella seconda parte del Novecento. Il cittadino del mondo di cui parla l’utopia cosmopolita è un’astrazione priva di consistenza reale: cittadini si è nella misura in cui si condivide un progetto comune in un determinato territorio, a prescindere dal fatto che vi si parli la stessa lingua o meno scrive Friedman (e io aggiungo: a prescindere che si appartenga allo stesso gruppo etnico o religioso), cittadini si è se si appartiene a una comunità solidale che stabilisce come distribuire la ricchezza prodotta in quel territorio.

Contro questa concezione territoriale/localista è in atto l’offensiva di quelle élite globaliste che considerano le nazioni come meri contenitori di risorse (materie prime, capitali, forza lavoro, terreni, ecc.) e non come unità, e la classe politica si adatta a questa filosofia. Friedman cita ad esempio un progetto di legge svedese che, alla fine dei Novanta, preso atto che la Svezia, a causa dell’immigrazione di massa, non dispone più di una storia comune condivisa, dichiara che i cittadini svedesi vanno considerati come un gruppo etnico al pari di altri. Il multiculturalismo così inteso, commenta Friedman, significa che “il ceto politico viene a trovarsi al di sopra della nazione, cessando di esserne un’estensione”. Questa forma di “pluralismo”, aggiunge, non è inedita: i primi a teorizzarla sono stati gli imperi coloniali, istituendo un ordine basato sulla segmentazione e sul conflitto fra sudditi appartenenti a gruppi in competizione reciproca; l’eliminazione dei concetti di popolo, nazione e popolazione discende dunque in linea diretta dalla pratica politica di imperi e regimi coloniali. È per questo che il rapporto fra governanti e governati tende a somigliare sempre più a quello fra colonizzatori e colonizzati; è per questo che il conflitto fra destra e sinistra viene soppiantato da quello fra centri e periferie (non solo a livello globale ma anche all’interno di ogni singola nazione)¸ è per questo, infine, che i sistemi politici occidentali assumono sempre più l’aspetto di regimi dispotici retti da un autoritarismo liberale o un liberalismo autoritario (non è un caso se, laddove le persone “sbagliate” vincono le elezioni sia loro che i loro elettori vengono considerati antidemocratici e si tenta in ogni modo di neutralizzare i risultati elettorali).

Il lettore avrà intuito che chi scrive condivide in larga misura le argomentazioni di Friedman. In particolare, la sua contrapposizione fra prospettiva imperiale delle élite globali e prospettiva nazional popolare delle classi subordinate evoca la tesi dell’antagonismo fra flussi e luoghi che ho sostenuto nel mio ultimo lavoro (La variante populista, DeriveApprodi). È possibile che in alcuni passaggi abbia eccessivamente enfatizzato la convergenza fra il mio punto di vista e quello di Friedman; se è così me ne scuso, tuttavia ritengo di essere rimasto sostanzialmente fedele sia allo spirito che alla lettera del testo qui commentato. Prima di concludere, tuttavia, non posso esimermi dall’evidenziare due aspetti del libro che mi lasciano perplesso. Il primo si riferisce al fatto che l’autore sostiene che la cultura del politicamente corretto non si rivolge solo contro alcuni principi tipici della modernità quali il monoculturalismo, l’essenzialismo e l’identità nazionale, ma attacca la razionalità occidentale in quanto tale. Tale affermazione si giustifica solo nella misura in cui quest’ultima venga associata – come Friedman in effetti fa – alla definizione popperiana di razionalità scientifica, alla razionalità argomentativa habermasiana, o, più in generale, all’intera tradizione illuminista. Suona assai meno convincente alle orecchie di chi, come il sottoscritto, pensa che la razionalità moderna sia il prodotto della civiltà e della cultura borghesi e dell’economia capitalistica. Se questo è vero, occorre ammettere che la razionalità moderna si è evoluta nel corso del tempo, subendo radicali trasformazioni associate a quelle della civiltà capitalistico-borghese. Ecco perché ritengo che la filosofia postmoderna e i suoi prodotti collaterali, come la svolta linguistica nelle scienze sociali di cui sopra, sia figlia legittima della filosofia moderna e, se è vero che contiene in sé un principio di autodistruzione, ciò avviene perché tale principio è immanente alla logica del capitale (cfr. Polanyi e Marx). Se oggi registriamo, per esempio, il divorzio fra mercato e democrazia non è perché c’è stata una “degenerazione” di tale binomio ma perché la relazione fra questi due termini era storicamente contingente.

Ancora più problematico mi pare definire il fenomeno del politicamente corretto come antimoderno in quanto antioccidentale. Basti pensare alla martellante propaganda – ricca di argomentazioni politicamente corrette! – con cui l’imperialismo occidentale giustifica le proprie aggressioni al resto del mondo con la necessità morale di diffondere ovunque quei diritti individuali e civili di cui (sempre meno!) godono i propri cittadini (sempre più sudditi!). Ecco dunque la seconda obiezione: Friedman critica le élite intellettuali perché condannano l’unilateralismo dei valori occidentali in nome delle differenze culturali, ma non si rende conto che, in determinate circostanze, l’argomento è rovesciabile. Per esempio: certe reazioni dei media occidentali all’episodio di Colonia, ancorché giustificate dall’indignazione femminista, non sono forse sconfinate nel razzismo e nell’islamofobia? Di esempi del genere se ne potrebbero fare molti ma, per farla breve ciò che voglio dire è che occorrerebbe evitare di attaccare il manicheismo politicamente corretto riproponendone specularmente la logica. Così come occorrerebbe tenere presente che il linguaggio politicamente corretto viene adattato di volta in volta agli interessi delle diverse fazioni che si contendono l’egemonia all’interno del blocco economico, politico e sociale dominante.

Concludo reiterando l’invito – già formulato su queste pagine – a non mobilitare un cattivo universalismo contro il cattivo relativismo (e viceversa) e ribadendo – per non enfatizzare le critiche ai limiti del lavoro di Friedman – quanto sottolineato in precedenza: non va dimenticato che siamo di fronte a uno sguardo antropologico e non sociologico-economico.