Articolo apparso già in Nuovi signori e nuovi sudditi. Ipotesi sulla struttura di classe del capitalismo contemporaneo, di Costanzo Preve ed Eugenio Orso.
1. Al principio di tutto, c’è l’indignazione. In generale l’indignazione è preceduta da una vaga irritazione, ma quando l’irritazione si cristallizza in indignazione allora si ha la genesi delle rivelazioni religiose e delle coerentizzazioni filosofiche. L’indi-gnazione è stata all’origine della filosofia greca detta erroneamente presocratica (er-roneamente, perché in un certo senso lo stesso Socrate è stato l’ultimo dei cosiddet-ti presocratici, e cioè di coloro che filosofavano al servizio diretto ideale della polis democratica), nella forma della indignazione razionalizzata di fronte all’irruzione sconvolgente della schiavitù per debiti, a sua volta dovuta alla monetarizzazione sel-vaggia dei rapporti sociali. In sintesi, la stessa filosofia greca ha trovato la sua genesi storica e sociale nello scontro fra l’elemento comunitario e l’elemento privato, più specificamente nella lotta fra le classi subalterne che aspiravano a salvaguardare la coesione economica e solidale della comunità e le classi superiori che miravano inve-ce a dissolvere i legami comunitari, liberandosi così dalle pendenze e dagli obblighi economici verso la comunità, spalancando così le porte all’accumulazione cremati-stica.
Ho usato il termine accumulazione crematistica (termine preso da Aristotele) e non capitalistica, perché a quei tempi non sarebbe stato in alcun modo corretto par-lare di accumulazione capitalistica. La piena confluenza dell’economia crematistica (già presente ovviamente, sia pure dominata, in un contesto di modo di produzione asiatico, schiavistico e feudale) in vera e propria economia capitalistica presuppone la sparizione di ogni distinzione fra crematistica ed economia propriamente detta, di-stinzione che sta invece alla base della concezione aristotelica della società (e si veda in proposito, oltre allo stesso Marx, Karl Polanyi, eccetera). E tuttavia, per cogliere razionalmente questa distinzione, è bene richiamare, fuori di ogni inutile e verbosa citatologia, il modo chiaro e insuperabile con cui Marx imposta il problema nel primo libro del Capitale.
2. Odio le citazioni e la citatologia, ma in questo caso farò una eccezione, data l’im-portanza del tema. Scrive Marx: “Il capitale non ha inventato il pluslavoro. Ovunque una parte della società possegga il monopolio dei mezzi di produzione il lavoratore, libero o schiavo, deve aggiungere al tempo di lavoro necessario al suo sostentamento un tempo di lavoro eccedente per produrre i mezzi di sostentamento per il posses-sore dei mezzi di produzione, sia questo proprietario kalòs kai agathòs ateniese, teo-crate etrusco, civis romanus, barone normanno, negriero americano, boiardo valacco, proprietario agrario moderno, o capitalista. E’ evidente, tuttavia, che quando in una formazione sociale ed economica è preponderante non il valore di scambio, ma il valore d’uso del prodotto, allora il pluslavoro è limitato ad una cerchia di bisogni più o meno ampia, ma non sorge dal carattere stesso della produzione nessun bisogno illimitato di plusvalore”.
Le citazioni necessarie a comprendere il pensiero di Marx non superano a mio av-viso la ventina. Questa è una delle più importanti, e non è neppure difficile capire il perché.
In primo luogo, Marx scrive una frazione, in cui al minimo comun denominatore c’è il pluslavoro appropriato dalle classi dominanti in tutte indistintamente le società classiste, mentre al numeratore c’è soltanto la specifica forma capitalistica in cui si manifesta il pluslavoro, e cioè il plusvalore, estratto dalla forza-lavoro di un lavora-tore formalmente libero. Ma mentre il valore d’uso è per sua stessa natura limitato, il valore di scambio segue invece una logica di accumulazione illimitata. La dicotomia dialettica fondamentale del capitalismo è quindi quella fra Limitato ed Illimitato. Si tratta della stessa dicotomia già presente alle origini della filosofia greca. Il famoso apeiron di Anassimandro, traducibile come infinito-illimitato-indeterminato, è (a mio avviso, almeno) la semplice metafora astrattizzata del carattere distruttivo, ove non tenuto a freno (katechon), della produzione mercantile infinita, illimitata ed indeter-minata.
Il termine opposizionale ad apeiron (metafora della natura distruttiva della pro-duzione monetaria illimitata ed indeterminata) è il termine parmenideo di Essere (to on), evidente metafora (almeno per me) della stabilità nel tempo e della correlata immodificabilità della buona legislazione politica di tipo pitagorico, pensata come rapporto geometrico (logos) fra grandezze sociali armoniche ed equilibrate. Per poter pensare la natura distruttiva della illimitatezza del valore di scambio e della sua na-tura distruttiva di tutti i rapporti umani il ritorno ad Anassimandro ed a Parmenide non è dunque un lusso per antichisti colti, ma è un passaggio indispensabile. Non a caso nella citazione prima riportata Marx mostra di conoscere sia il greco (kalòs kai agathos ateniese), sia il latino (civis romanus). E questo, appunto, non è un caso, perché senza la conoscenza della intera storia universale dei rapporti classistici di produ-zione non è neppure possibile individuare l’elemento differenziale fra la semplice estrazione di pluslavoro e l’estrazione capitalistica di plusvalore. In secondo luogo, e questo riguarda direttamente questo mio breve saggio, appare chiaro che l’uso di termini come “capitalismo neofeudale” è improprio, in quanto la strutturazione oligarchica neofeudale della società di questo orrendo modello di capitalismo postborghese e postproletario senza classi (più esattamente: che ha meta-bolizzato nel suo sviluppo le precedenti classi borghese e proletaria) non può essere in alcun modo propriamente “feudale”, perché è retto da una norma di accumulazio-ne illimitata del capitale. Ho deciso di utilizzare questa (impropria) categoria, mosso dalla indignazione verso la miseria della politologia contemporanea, che è ridotta alla ridicola categoria di “democrazia minacciata dal populismo”, di “occidente mi-nacciato dal fondamentalismo islamico”, con il coro corrotto dei filosofi universitari che si limitano a blaterare di biopolitica e di fine della grandi narrazioni.
Ammetto quindi subito che questa categoria di capitalismo neofeudale è impro-pria, e deve essere considerata come provvisoria. Essa nasce soltanto dall’indigna-zione, categoria in effetti epistemologicamente debole. Ma vediamone l’origine, psi-cologica prima che scientifica.
3. Come sempre, all’inizio c’è l’indignazione. In questo, mi sento in ottima com-pagnia. Apriamo il Vangelo di Matteo, 10,27: “Quello che vi dico nelle tenebre, dite-lo nella luce. E quello che ascoltate all’orecchio, predicatelo sui tetti”. Perfetto, con l’inessenziale precisazione che Gesù di Nazareth non incitava i discepoli a salire sui tetti, con il pericolo di scivolare sulle tegole, ma si limitava ad incitarli a salire sulle terrazze (domata), in quanto in Palestina non c’erano tetti ma solo terrazze, su cui la gente dormiva d’estate. E tuttavia, per gridare dai tetti bisogna proprio essere arrab-biati, o come si dice oggi un po’ volgarmente “incazzati”.
Giornale “La Stampa” di Torino, 16/1/’07. Un certo Bruno Villois, non altrimenti noto, presentato come un professore di economia aziendale, Space Bocconi (space, non spazio, in quanto la lingua liturgico-religiosa oggi non è più il latino, ma l’in-glese, senza che cambi la natura liturgica di una lingua distinta da quella parlata dai sudditi di un territorio) scrive un articolo dal titolo “Ceto Medio, Prossimo alla Fine”. Perbacco, mi sono detto, ecco un articolo da ritagliare, tanto più che inizia in questo modo escatologico-apocalittico: “Il tempo corre veloce e il mondo accelera. Cina e India fanno da traino, gli USA subito dopo ed anche in Eurolandia le cose non vanno male”.
Sarebbe ingeneroso (ma io lo sono) far notare che il pomposo economista Villois, un anno circa prima dello scoppio dell’attuale crisi, non la prevede minimamente, ed inneggia allo sviluppo globale. Da tempo so bene che le previsioni degli economisti sono meno precise di quelle delle zingare che leggono i fondi di caffè. Non vorrei che il lettore pensasse che io lo dica per paradosso. Lo dico letteralmente. Le zingare, ovviamente, non possono predire il futuro sulla base dei fondi di caffè, ma lo fanno sulla base di intuizioni ricavate dalla figura del bevitore della tazzina (sano o mala-to, sicuro di sé o incerto, felice o infelice, eccetera). Gli economisti, invece, sono puri e semplici truffatori prezzolati, come gli aruspici e gli auguri, anche se a differenza di questi ultimi, che avevano una visione generale delle cose, scambiano il mondo nella sua totalità per gli indici economici, ed hanno così a che fare con un mondo parallelo ed in buona parte virtuale. Ma torniamo a Villois, citiamolo come se fosse Marx o Hegel. Scrive Villois: “E il ceto medio? Brutte notizie. Nel prossimo decennio le categorie sociali non saranno più tre, bassa, media e alta, ma solo due: la bassa, la stramaggioranza (sic!) della popolazione, e l’alta, in crescita e disposta a spendere, ma alla ricerca di lusso, qualità e personalizzazione”.
Fin qui, nulla di nuovo. Da circa due decenni, dalla fine dell’esperimento di inge-gneria sociale dispotico-egualitaria sotto cupola geodesica protetta chiamato “comu-nismo”, il ceto parassitario degli economisti, dei politologi e dei sociologi ci rintrona con questo mantra neofeudale, per cui c’è una nuova Superclass oligarchica e poi una immensa plebe. Ma c’è una fra setta che Villois ha deciso di aggiungere alla sua previsione: “Di qui inizia un nuovo modus vivendi , diverso ma non necessariamente peggiore”. Traducendo il tutto in linguaggio comune, il professor Villois sostiene che un mon-do oligarchico che distrugge quanto resta delle classi medie e si struttura su di una minoranza oligarchica di super-ricchi, ricercatori di lusso, qualità e personalizzazio-ne, ed una gigantesca maggioranza integralmente riplebizzata di gente “tenuta sotto pressione dai costi ordinari” (sic) non sarà neppure necessariamente peggiore.
Bene, l’indignazione nasce dal fatto che per chiunque non sia stato integralmente abbrutito da decenni di filosofia postmoderna e di economia neoliberale lo scenario evocato dal professor Villois è un incubo osceno e mostruoso. Sulla base della se-parazione integrale di origine maxweberiana fra giudizi di fatto e giudizi di valore (separazione che ha alle spalle la cosiddetta – ed inesistente – fallacia naturalistica di David Hume, colui che fondò l’economia politica su se stessa prescindendo intera-mente dalla religione, dalla filosofia e dalla politica) potremo anche aggiungere che anche il cannibalismo rituale e la pedofilia a pagamento potrebbero avere inaspettati “lati positivi”, e dare luogo a forme di vita “non necessariamente peggiori”.
Non me la prendo con il povero (anche se probabilmente ben pagato) professor Villois. Egli non è che uno dei tanti officianti della nuova idolatrica teologia dell’eco-nomia e del monoteismo di mercato. Il fatto è però che questa sua previsione po-trebbe anche essere giustificata. E bisogna allora scommettere su forze sociali, per il momento ancora inesistenti o puramente utopico-potenziali, che possano impedire la realizzazione di questo osceno scenario da incubo.
Il discorso sarà lungo, purtroppo, e dovrà iniziare da una riconsiderazione radi-cale della teoria delle classi in Marx. Non si tratta di “giurare” dogmaticamente su questa teoria delle classi. Così com’è, anzi, essa non può essere riproposta. Ed infatti io non intendo riproporla, ma riproblematizzarla radicalmente, fino a trasformarla in modo da essere praticamente irriconoscibile ai praticanti ed agli officianti del vecchio mito sociologico proletario, che ha dato ormai tutto quello che poteva dare.
4. Il concetto di classe in Marx non è di tipo sociologico. Certo, Marx può essere inserito in una storia dei classici del pensiero sociologico, così come dei classici del pensiero economico o di quello filosofico. E tuttavia, questo inserimento è possibile soltanto sulla base di una improprietà di tipo categoriale. Marx è in realtà un pen-satore di tipo metafisico nel significato classico del termine. Egli sviluppa una inter-pretazione metafisica dell’intera storia della specie umana in termini di caduta e di redenzione, e tutto il resto (teoria dei modi di produzione, del valore e del plusva-lore, eccetera) le è subordinato. E’ interessante che la stragrande maggioranza dei cosiddetti “marxisti”, in realtà positivisti diversamente specializzati (storici, econo-misti, politici, filosofi, sociologi, eccetera) rimuove variamente questo fatto, convinti che Marx sia un pensatore scientifico e postmetafisico, in quanto ateo. Chi invece consente sul fatto che Marx presenta aspetti metafisici (Habermas) lo ammette per poterlo liquidare meglio e considerare “superata” la sua prospettiva.
Il concetto di classe in Marx non è di tipo sociologico, e non permette di classificare vari strati sociali in termini di potere, reddito, consumi, stili di vita, eccetera. Que-sto concetto è di tipo storico strutturale, in quanto si limita ad indicare due polarità opposte di tipo dicotomico all’interno del concetto portante di modo di produzione.
A rigore (trascurando qui il cosiddetto modo di produzione asiatico) le grandi classi elencate da Marx sono soltanto sei (proprietari di schiavi e schiavi, feudatari e servi della gleba, borghesi e proletari). Ora, è del tutto evidente che sulla base di que-ste sole sei classi è impossibile tracciare un quadro sociologicamente completo della strutturazione classista all’interno della storia universale. Su questa base i sociologi di tipo funzionalistico e “stratificazionistico” (Dahrendorf, eccetera) avranno sempre ragione contro Marx. Ma, appunto, non è questo il criterio con cui Marx può essere correttamente criticato. Bisogna affrontare il problema da un altro punto di vista.
5. In estrema sintesi, il concetto di classe di Marx presenta tre aspetti teorici prin-cipali.
In primo luogo, la classe sociale in Marx è un insieme di agenti, attivi e passivi, collocati all’interno di rapporti sociali bipolari di uno specifico modo di produzione. Lo stesso termine di “borghesia” è largamente improprio, perché in realtà con questa parola si intende un insieme sociale di agenti attivi della riproduzione capitalistica, prescindendo da tutti gli altri aspetti comportamentali, culturali, artistici, religiosi, filosofici, eccetera.
In secondo luogo, parlando di classi sociali fondamentali, Marx vi innesta la dialet-tica coscienziale di origine hegeliana, sviluppata sistematicamente per la prima volta nella Fenomenologia dello Spirito, per cui la classe presuppone la possibile acquisizione di una specifica coscienza di classe. Si tratta del passaggio dall’In Sé (collocazione oggettiva di classe) al Per Sé (coscienza soggettiva collettiva di classe).
In terzo luogo, sullo sfondo di questa doppia definizione di classe, non è possibile dimenticare un aspetto fondamentale della concezione marxiana di classe, e cioè la prospettiva utopica della società senza classi futura.
Riassumendo, la concezione di classe sociale in Marx presenta l’intreccio di tre dimensioni, la prima di tipo strutturale-oggettivo (considerata generalmente come “scientifica”), la seconda di tipo filosoficamente idealistico, termine pudicamente rimosso e sostituito con il termine improprio di “materialistico”, e la terza di tipo utopico, sia pure di un utopismo che con falsa coscienza necessaria crede di essere scientificamente deducibile. Ma questo intreccio di idealistico e di materialistico, di scientifico e di utopistico, eccetera, è stato da un lato il fattore principale del successo storico del marxismo, nel suo fascino di pseudo-scienza e di quasi-religione, e dall’al-tro il suo principale fattore di debolezza nel lungo periodo, quando, per così dire, “i nodi sono venuti al pettine”.
È quindi necessario ingegnarci a districare alcuni di questi nodi, se vogliamo aprirci la strada per arrivare a conclusioni concrete sul tempo presente. Non potremo certamente districarli tutti, perché non si possono facilmente districare nodi rimasti intrecciati per un secolo e mezzo, ma almeno “allentarli” un poco sì, questo potremo.
6. Non bisogna mai stancarsi di ripetere che la teoria delle classi in Marx non è una teoria sociologica, ma è invece la “ricaduta” narrativa di una filosofia della sto-ria del destino dell’umanità. La filosofia di Marx non è solo un umanesimo, è un iperumanesimo, in quanto si tratta del Destino dell’Uomo (la maiuscola, ovviamen-te, è volontaria). Una teoria di tipo sociologico sulla strutturazione sociale è di tipo descrittivo, non narrativo o prescrittivo (diventate comunisti, e così riscatterete le alienazioni dell’umanità). In quanto descrittiva, una teoria sociologica di una società particolare dovrebbe necessariamente individuare dai dieci ai venti gruppi distinti in base a parametri come la ricchezza, il potere, gli stili di vita, i consumi, la conoscenza, la cultura, eccetera. Nessuna decente descrizione sociologica di una società potrebbe limitarsi ad individuare soltanto due gruppi sociali.
Le due grandi classi sociali nel capitalismo (borghesia e proletariato) sono due grandi “attrattori magnetici” che fanno, di fatto, scomparire ogni autonomia storica dei gruppi intermedi, che in effetti diventano semplici utenti di quegli ascensori in salita ed in discesa che si chiamano (con il massimo di pittoresca improprietà) im-borghesimento del proletariato e proletarizzazione della borghesia. Se si continua su questa strada, infatti, diventerà del tutto impossibile analizzare la possibile ribellio-ne dello strato inferiore delle classi medie di fronte all’attuale oligarchia finanziaria neofeudale.
Ma qual è la genesi sociale e storica della teoria marxiana bipolare e dicotomica delle classi? Su questo i marxisti per più di un secolo hanno diffuso un’immagine che non so se chiamare demenziale o semplicemente infantile. Così come Maometto nel deserto ad un certo punto ha cominciato a pensare di essere stato chiamato da Allah per diffondere i suoi voleri, nello stesso modo un giovane barbuto tedesco, vagabon-dando fra la Germania, la Francia, il Belgio e l’Inghilterra, ha avuto la geniale “pensa-ta” per cui nella società in cui viveva c’erano due grandi classi antagoniste, quella dei proprietari privati dei mezzi di produzione (la borghesia) e quella dei liberi venditori sul mercato della loro forza-lavoro (il proletariato), in cui l’apparenza dello scambio di equivalenti permetteva di estorcere il plusvalore.
Se le cose stessero solo in questo modo (e tutti i manuali ripetono che stavano solo in questo modo), si tratterebbe soltanto della gloriosa scoperta della bollitura dell’ac-qua calda. E’ vero che la bollitura dell’acqua calda ha avuto nella storia dell’umani-tà un’importanza probabilmente superiore a quella della macchina a vapore e del computer, ma credere che la grandezza di Marx consista in questa banalità assoluta è veramente fargli torto. La novità della teoria marxiana delle classi consiste in altro, e cioè nel pensare che la borghesia è stata, è e sarà l’ultima classe sfruttatrice, ed il proletariato non sarà soltanto l’ultima classe sfruttata, ma il vettore storico universa-listico di emancipazione dell’umanità intera.
Ma da dove viene questa idea? In generale (Weber, Löwith, eccetera) si pensa che si tratti di una secolarizzazione della tradizione della escatologia messianica ebraico-cristiana nel nuovo linguaggio dell’economia politica. Non escludo che ci possa es-sere stata anche questa componente, ma non la ritengo essenziale. Credo invece che si tratti dell’elaborazione sistematica della coscienza infelice borghese, il che fa della teoria marxiana del comunismo una teoria integralmente borghese, che il proletaria-to non ha in alcun modo contribuito a creare, restandone unicamente il destinatario. Ma spieghiamoci meglio.
La categoria idealistica di coscienza infelice fu per la prima volta proposta da He-gel nella Fenomenologia dello Spirito, per indicare la situazione spirituale dell’uomo medioevale della cristianità europea, infelice perché credeva in un Dio esterno a lui stesso, e pertanto irraggiungibile e inattingibile. Nella teoria di Hegel l’autocoscien-za umana deve diventare consapevole di se stessa nella forma del concetto, termi-ne che in Hegel non significava categoria conoscitiva, ma semplicemente libertà del soggetto divenuto consapevole. E tuttavia Marx, allievo ateo di Feuerbach, idealista convinto (con la tipica falsa coscienza necessaria degli agenti storici – non vedo per-ché si possa applicare a tutti, ma non a Marx), era passato attraverso l’universali-smo incompiuto dell’illuminismo, e si era reso pienamente conto della impossibilità di universalizzazione reale dei valori borghesi (libertà, eguaglianza e fraternità), in quanto contraddittori con la dinamica dello sfruttamento capitalistico. In un certo senso, tutta la filosofia di Marx era già contenuta nella Questione Ebraica del 1843, con l’analisi della contraddizione fra citoyen e bourgeois.
Se Marx si fosse limitato a dicotomizzare i dominati e i dominanti, i proletari ed i borghesi, eccetera, avrebbe aggiunto il suo nome alla lunga lista dei perfezionatori della teoria della bollitura dell’acqua calda. Ma egli fece molto di più. Trasformò la scoperta della bollitura dell’acqua calda in filosofia universalistica dell’emancipazio-ne umana, attraverso l’originale elaborazione idealistica della coscienza infelice della borghesia.
Ho insistito molto su questo punto, a mio avviso ovvio ed evidente ma del tutto ignoto sia ai liberali che ai marxisti dogmatici, per far capire che la logica del capi-talismo assoluto e totalitario in cui siamo sciaguratamente immersi oggi non tende tanto ad addomesticare il proletariato, instupidendolo con il panem (il consumismo) ed i circenses (lo sport agonistico), quanto a superare la stessa cultura borghese, nella misura in cui quest’ultima era “inquieta”. Visto nella sua globalità, il cosiddetto post-moderno (con alcune sue ridicole appendici come la cosiddetta biopolitica) non è che un gigantesco (anche se grottesco) tentativo di spegnere gli elementi di coscienza infelice della cosiddetta “modernità”. Per questo la modernità (termine accademico-universitario-mediatico per indicare il capitalismo) viene ridotta al cosiddetto “di-sincanto” (con l’appendice della liberalizzazione integrale dei costumi definita “po-liteismo dei valori”), laddove viene da essa sottratta e cancellata la coscienza infelice, che è stata all’origine del pensiero del borghese inquieto Marx.
È facile capire tutto questo, e cioè che l’odierno capitalismo oligarchico teme mag-giormente la coscienza infelice borghese del rivendicazionismo economico proleta-rio? Per quanto mi riguarda è facile, ma dal momento che tutto l’apparato politico-sindacale di “sinistra” ed il clero universitario di filosofia e di scienze sociali rema in direzione opposta, di fatto non c’è speranza a breve termine di un vero riorientamen-to gestaltico di massa.
7. Il fatto che la teoria dicotomico-bipolare marxiana delle classi abbia come genesi storica e filosofica una elaborazione originale universalistica della coscienza infelice borghese, e per nulla affatto un rivendicazionismo utilitaristico proletario (che poi ci si è aggiunto, ovviamente, ma solo in un secondo tempo con la formazione del movimento operaio organizzato di fine ottocento), ha fatto sì che la teoria marxiana delle classi sia stata inserita in una sorta di utopismo scientifico. L’ossimoro, chiara-mente, è voluto ed intenzionale, ed ha come scopo lo spaesamento necessario perché il lettore onesto e curioso comprenda che i suoi precedenti punti di vista consolidati dovrebbero essere riesaminati.
Che significa utopismo scientifico? Significa, in breve, che la premessa utopica di tipo tardo-illuministico e tardo-romantico (la comunità egualitaria russoviana e la riconciliazione fra Uomo e Natura) viene “dimostrata” attraverso una concezione evoluzionistico-positivistica di scienza come qualcosa che è comunque contenuta all’interno di una dinamica necessaria ed inevitabile del decorso della storia umana.
E tuttavia, la storia può essere oggetto di scienza, e cioè di scienza della storia?
Qui sta il problema. Dal momento che la concezione moderna di scienza è quella di
Galileo e di Newton (la scienza matematica della natura) io rispondo decisamente di no. Ci può essere una filosofia della storia, ci può essere un metodo storico di accer-tamento dei fatti e delle intenzioni, ma non ci può essere una scienza della storia, a meno che con questo termine si intenda (ed allora consentirei anch’io) una scienza fi-losofica della storia nel senso della scienza della logica di Hegel. Galileo scrisse a suo tempo che il gran libro della natura era scritto in caratteri matematici, e per poterlo leggere bisognava imparare la matematica (con le cosiddette necessarie dimostrazio-ni e con le sensate esperienze). Ma questo riguarda il gran libro della natura (astro-nomia, fisica, chimica, biologia, eccetera). I due libri della natura umana e della storia universale non sono invece scritti in caratteri matematici, ma sono scritti in caratteri filosofici. E la filosofia, lungi dall’essere una teoria della conoscenza degli oggetti scientifici o una epistemologia di servizio per le discipline scientifiche (si tratta di due recinti periferici chiamati “filosofia della scienza”, vere e proprie aree di servizio per i fornitori, in cui non ci abiterebbe mai nessuno), è una ideazione conoscitiva e veritativa autonoma, che ha un oggetto ed un metodo specifici, che non derivano in alcun modo dalla cosiddetta “scienza”. So bene che dire queste cose solleva urla scomposte di irrazionalismo anti-scientifico, così come criticare il sionismo israeliano solleva automaticamente urla scomposte di antisemitismo. Ma in questi casi bisogna tenere i nervi a posto ed ignorare l’urlio cacofonico. Nessuno mette in dubbio la legittimità e l’utilità delle discipline dette “scientifiche”. Semplicemente, sostengo che sulla base del cosiddetto metodo scientifico (che riguarda esclusivamente le scienze della natura, e nessun altra) non è possibile dimostrare assolutamente nulla in cam-po storico e sociologico. La storia usa il metodo della analogia storica, metodo utile ed interessante (Nerone come Hitler, Robespierre come Lenin, eccetera), ma che non ha di per sé nulla di scientifico nel senso ristretto del termine. Sia dunque chiaro: il gran libro della natura è certamente scritto in caratteri matematici, ma il gran libro della storia non è scritto in caratteri matematici. E quindi, la teoria del passaggio del socialismo dall’utopia alla scienza, generosamente (ed incautamente) annunciato da Engels nel 1888, non esiste e non è mai esistita.
Il discorso qui si farebbe lungo, ma siccome l’oggetto di questo mio modesto studio è diverso, e verte sull’inquietante sospetto di una evoluzione neofeudale dell’odier-no capitalismo oligarchico, mi limito a motivare la mia argomentazione con due ra-pidi riferimenti al cosiddetto materialismo dialettico ed al cosiddetto materialismo storico, insigni esempi di riproposizione positivistica del pensiero dei primitivi.
8. Per più di un secolo si è ripetuto in decine di lingue del mondo che il materiali-smo dialettico (opera originale di Engels, mai neppure immaginata da Marx) era la filosofia del comunismo di Marx. Ma il ripetere mille volte che la terra è piatta non la fa diventare per questo piatta. Il materialismo dialettico, basato sul fatto (indimo-strato ed indimostrabile) che la materia è caratterizzata da una dialettica interna di tipo teleologico e necessitaristico, ha come principio metafisico caratterizzante l’idea dell’esistenza di leggi dialettiche comuni sia alla natura che alla storia. Per espri-mermi in modo educato, direi che si tratta di una ingenua sciocchezza. L’origine psicologica di questa ingenua sciocchezza positivistica sta in un desiderio soggettivo (in inglese wishful thinking) che l’esistenza di leggi storiche che possono garantire l’infallibile passaggio dal capitalismo al comunismo possa essere scientificamente assicurata dal fatto che queste leggi esistono già in natura. Per più di un secolo, a par-tire da Mondolfo e Gentile fino a Lukács, molti pensatori hanno cercato di dimostrare che la causa storica della critica al capitalismo non aveva bisogno di questo indigesto pastone positivistico. Non è servito a nulla. Ogni innovazione è irricevibile se il suo destinatario è così cretino e cieco da essere irriformabile.
E tuttavia, il materialismo dialettico deriva pur sempre dal codice dell’utopismo scientifico. Si tratta di una tarda riproposizione positivistica di un codice del pensiero primitivo, l’unità ontologica fra il macrocosmo naturale e il microcosmo sociale. Ma mentre i primitivi avevano serissime ragioni per pensarla in questo modo, in quanto senza la natura a disposizione per la caccia, pesca e raccolta non avrebbero neppure potuto sopravvivere, ed era quindi del tutto logico che sostenessero l’unità ontolo-gica del macrocosmo naturale e del microcosmo sociale, nel caso del materialismo dialettico siamo soltanto in presenza della boria dei professori positivisti barbuti del tempo, predicata ai proletari come vetta massima del grande sapere “borghese”.
9. Mentre il materialismo dialettico è solo una escrescenza inutile e dannosa (la filosofia di Marx non è il materialismo dialettico, ma un idealismo universalistico ri-gorizzato e coerentizzato), il materialismo storico è invece un “pezzo” indispensabile della sua concezione. Si tratta in realtà (almeno, questa è la mia opinione del tutto eretica) non certo di un materialismo storico, quanto di un idealismo storico univer-salistico rigorizzato, che viene chiamato erroneamente “materialismo” perché il ter-mine “materia” è usato impropriamente in modo metaforico per indicare l’ateismo (Marx non credeva in Dio), il primato della prassi sulla semplice contemplazione della realtà sociale, e soprattutto il primato della struttura sulla sovrastruttura all’interno di un dato modo di produzione sociale. Detto in linguaggio militare, l’ideali-smo è la strategia e il materialismo è la tattica. Il discorso sarebbe lungo (ma l’ho fatto dettagliatamente altrove), ma qui è necessario interromperlo per ragioni di spazio.
Mentre il metodo del cosiddetto materialismo storico (inteso come teoria della ge-nesi, sviluppo, crisi e tramonto dei modi di produzione) non consentirebbe di per sé una grande narrazione unilineare predeterminata e teleologicamente necessitata, ma darebbe invece luogo ad uno sviluppo multilineare senza alcuna garanzia teleologi-ca, se fosse ovviamente praticato con serietà “scientifica” e libertà interpretativa, il movimento comunista ha trasformato questa intelligente teoria in una stupida teoria dei cinque stadi prefissati della storia universale (comunismo primitivo, schiavismo, feudalesimo, capitalismo, ed infine comunismo finale visto come trionfo definitivo della “sinistra” contro la “destra”). Perché tanta inutile ed antistorica stupidità?
Ma è semplice. Questa antistorica stupidità restaura in modo evoluzionistico-po-sitivistico un elemento fondamentale del pensiero dei primitivi, e cioè il messiane-simo teleologico garantito. Di “materia” non c’è in proposito che la testa dura degli zucconi che credono che la sacrosanta causa della critica al capitalismo abbia bisogno di raccontare (e di raccontarsi) delle storie inverosimili, inventandosi una linea ferro-viaria a cinque stazioni in cui correrebbero i binari della storia universale.
10. E tuttavia, gli zucconi resteranno tali finché non sarà assodato che la teoria delle classi in Marx, oltre a non avere alcun carattere di tipo sociologico-descrittivo, non è affatto inserita all’interno di una concezione filosofica materialistica (se non in senso puramente metaforico di ateismo, prassi e struttura), ma è inserita in una concezione filosofica di idealismo moderno. Marx è stato il terzo ed ultimo grande idealista tedesco dopo Fichte ed Hegel. L’idealismo classico tedesco comprende in-fatti tre grandi pensatori successivi, Fichte, Hegel e Marx.
Si dirà: non lo afferma nessuno, ma facciamo pure l’ipotesi che sia così come tu dici. E tuttavia, che cosa c’entra tutto questo con l’oggetto del nostro contendere, e cioè l’ipotesi dell’evoluzione oligarchica, e quindi neofeudale, del moderno capitali-smo?
C’entra, c’entra molto. Ma per capire in che senso c’entri, è necessario prima riflet-tere su questa mia tesi filosofica di fondo. E soprattutto, liberarci dei luoghi comuni e dei pregiudizi dei semi-colti, quelli che “credono di sapere e non sanno” (Socrate), infinitamente più pericolosi degli innocui ignoranti e dei pittoreschi analfabeti.
I semi-colti pensano che in filosofia “idealismo” significhi muoversi in base non alla realtà storica, ma in base ai cosiddetti “ideali”, le finalità perseguite da coloro che avrebbero “la testa nelle nuvole” (critica originaria del commediografo Aristofane a Socrate, che da duemila anni nutre negli sciocchi l’odio verso la filosofia, disprezzata come perdita di tempo inutile – ed infatti è vero, la filosofia per fare soldi non solo inutile, ma è addirittura dannosa). Se così fosse il più famoso idealista moderno, e cioè Hegel, non sarebbe un idealista, perché gran parte della sua polemica è rivolta verso la cosiddetta “anima bella”, quella cioè che scambia i suoi ideali astratti per re-altà perseguibili concretamente. Ed “idea”, nell’idealismo, non significa affatto opi-nioni, perché lo stesso Hegel sostenne che la filosofia non ha a che fare con opinioni, ma con la verità, da lui definita in termini di corrispondenza del concetto con la sua oggettività. Formulazione che può sembrare a prima vista incomprensibile, ma che diventa immediatamente chiara, non appena si comprende che nel linguaggio he-geliano il “concetto” significa l’autocoscienza libera ed autonoma di un soggetto, ed “oggettività” significa la capacità storica reale di questo soggetto di attuare concre-tamente nel mondo reale i contenuti etici e politici di questa sua libera soggettività autocosciente. E allora, la formulazione hegeliana di corrispondenza del concetto con la sua oggettività, tradotta nel linguaggio di Marx, significa che il concetto (e cioè la libera soggettività del genere umano nel suo sviluppo storico, concettualmente uni-ficato in un unico soggetto di tipo trascendentale-riflessivo) è in grado di produrre la sua oggettività (e cioè la società senza classi che supera ogni tipo di alienazione classista).
Marx è quindi idealista non in parte, ma completamente. E dove sta l’Idea (in maiuscolo, ovviamente, solo i nominalisti la scrivono in minuscolo)? Ma è semplice. L’Idea non è altro che la storia universale dell’umanità, pensata come un’unica tota-lità concettuale espressiva, che viene articolata sulla base di una teoria discontinua, e quindi non narrativo-storicistica, della successione dei modi di produzione. E chi pensasse che questo non basta per fare dell’”idealismo” (ma per me basta e avanza!), rifletta sul famoso passaggio dall’In Sé (la classe nella sua collocazione strutturale “muta”) al Per Sé (la classe che ha raggiunto la consapevolezza libera della propria natura). Forse che questo passaggio ha qualcosa a che fare con il materialismo e con le scienze della natura (quelle scritte in caratteri matematici)? Ma non diciamo scioc-chezze!! Nessuna scienza e nessuna materia passeranno mai dall’In Sé al Per Sé!
In sintesi, l’idealismo integrale della filosofia di Marx, lungi dall’essere una biz-zarria di una “frangia lunatica” ( lunatic fringe), si basa su due punti fondamentali. Primo, sull’Idea concettuale unificata della storia universale dell’umanità, vista come luogo temporale della progressiva autocoscienza universalistica del genere umano. Secondo, sulla concezione di questa storia universale come passaggio “ideale” dall’In Sé al Per Sé, che permette appunto la corrispondenza del concetto (e cioè del libero soggetto) con la sua oggettività (e cioè con la capacità reale di oggettivazione politica e sociale).
Ma non è finita.
11. Una lunga esperienza di saggista critico “fuori dal coro” mi ha insegnato che anche il lettore più disponibile e meglio intenzionato tende irresistibilmente a “sal-tare”, e quindi ad ignorare, tesi troppo inquietanti e stranianti, per cui alla fine è come se esse non fossero neppure state scritte, e restano sulla carta (fino allo sbricio-lamento decennale della carta stessa, oggi fabbricata per non durare troppo) a futura memoria. Di questo non mi scandalizzo affatto. La mente umana si difende da uno stimolo eccessivamente provocatorio, che costringerebbe a rimettere radicalmente in discussione le proprie convinzioni precedenti, cosa potenzialmente distruttiva a partire dai trenta anni circa. Si tratta di un normale alleggerimento psicologico (la Belastung di cui parla Gehlen).
Per questo, prima di procedere nel discorso, mi permetto di ripetere quattro punti principali discussi in precedenza a proposito delle classi in Marx.
In primo luogo, la teoria delle classi in Marx non è di tipo sociologico-descrittivo. Se così fosse, due sole classi opposizionali non basterebbero, come tutti i sociolo-gi (e non solo quelli americani) sanno perfettamente. Si tratta di una teoria storico-strutturale, che presuppone la preventiva accettazione della teoria della successione storica dei modi di produzione, a sua volta costituiti dall’intreccio di tre elementi interconnessi (sviluppo delle forze produttive, natura dei rapporti di produzione, ed infine ideologie sovrastrutturali). Ma questa teoria dei modi di produzione, apparen-temente “scientifica” (e quindi sprovvista di giudizi di valore morali e filosofici) in realtà non lo è affatto, in quanto inserita in una interpretazione metafisica del destino storico del genere umano. E’ vero che sono esistite molte correnti “marxiste” (l’ul-tima quella di Louis Althusser e del suo allievo italiano Gianfranco La Grassa) che hanno voluto in tutti i modi eliminare questo secondo aspetto, ma in questo modo, sempre in nome di Marx, hanno fatto qualcosa che lo stesso Marx non avrebbe mai fatto o voluto, perché in Marx la stessa teoria strutturalistica dei modi di produzione era al servizio di una filosofia umanistica ed universalistica della storia, che era poi l’aspetto che di gran lunga gli interessava di più e che veramente gli premeva.
In secondo luogo, il fatto che il pensiero di Marx abbia avuto come genesi un epi-sodio tardoromantico di elaborazione sistematica della coscienza infelice borghese non è privo di conseguenze decisive, dal momento che il marxismo è stato interpre-tato per più di un secolo come un manuale di ingegneria sociale positivistica, come una forma di ateismo materialistico odiatore di ogni metafisica, come una forma di sindacalismo rivendicativo, come una forma di moralismo pauperistico, come una teoria della dittatura, eccetera. Al massimo, si sosteneva la fastidiosa idiozia per cui Marx avrebbe “tradito” la sua classe di origine, aderendo alla causa del proletariato. E’ vero che Marx ha aderito alla causa del proletariato, ma non lo ha certamente fatto perché ha “tradito” la borghesia. Ha certamente tradito il capitalismo, la cui causa immonda non merita alcuna adesione morale, ma non ha tradito la borghesia, che in nessun modo deve essere semplicemente identificata con il capitalismo. Il capi-talismo è un meccanismo sociale riproduttivo anonimo ed impersonale, la cui ten-denza di sviluppo è l’illimitatezza distruttiva dell’ambiente ecologico del pianeta e dell’antropologia umana e sociale. La borghesia è una classe-soggetto dialettica, che produce anche (non soltanto) la coscienza infelice dell’impossibilità dolorosa di con-ciliare lo sfruttamento capitalistico con i propri valori emancipativi universalistici. E quindi Marx non ha tradito la borghesia, ma anzi ha radicalizzato dialetticamente la sua coscienza infelice. Ogni mito sociologico dell’onnipotenza sociale del proletaria-to (fin qui smentita clamorosamente dalla storia degli ultimi due secoli) si basa sulla premessa errata per cui il comunismo deriverebbe autonomamente da una prece-dente cultura proletaria di tipo comunitario, che Marx si sarebbe limitato a rendere “scientifica”. Ma questo è un errore storico e filosofico.
In terzo luogo, la formulazione provocatoria dell’ossimoro spaesante dell’utopi-smo scientifico non deve restare una sorta di “innocua” battuta fuori dal pomposo coro dell’ortodossia marxiano-marxista, ma deve far riflettere sul fatto che l’uso irri-flessivo e dogmatico del termine “scienza” deve essere abbandonato. Le scienze esi-stono, e sono meravigliose ed utilissime al genere umano, in particolare nella forma della loro “ricaduta” tecnologica. Ma le scienze sono una forma di sapere priva per sua natura di presupposti filosofici (al di fuori della matematizzazione sperimentale del mondo, che però non è a mio avviso un presupposto filosofico in senso stretto, ma soltanto epistemologico e metodologico), laddove l’interpretazione metafisica del corso storico non è alcuno modo una “scienza”, se non nel senso, rifiutato dagli scienziati (che la considerano una buffonata) di scienza filosofica. Credere di poter ridurre la previsione tendenziale del futuro storico ad una “scienza” è appunto una utopia, nel senso negativo di cosa impossibile ed illusoria, e quindi ideologica. Buo-na magari per mobilitare le masse, ma la mobilitazione delle masse sulla base di una menzogna fa parte della corrente cinica e nichilistica dell’utilitarismo, che prende spesso il nome di “materialismo” solo per gettare il fumo negli occhi. Se lo si guarda con una lente di ingrandimento, ci si accorge agevolmente che questo presunto ma-terialismo, largamente metaforico, si riduce o a nominalismo, o ad utilitarismo, o a scientismo positivistico ottocentesco.
In quarto luogo, infine, abituarsi a considerare il pensiero di Marx nella sua tota-lità come una forma di idealismo rigorizzato e compiuto non è soltanto una (sia pur rilevante) riscrittura di un capitolo della storia della filosofia occidentale. Mi rendo conto che per un marxologo questo potrebbe essere un fine in sé, ma personalmente, per usare una espressione romanesca, “non me ne potrebbe fregare di meno”. Inter-pretare lo spirito (non la lettera filologicamente riscontrabile) del pensiero di Marx come la terza e compiuta forma di idealismo (dopo quelle di Fichte e di Hegel) ha conseguenze pratiche telluriche. Permette di abbandonare non solo l’illusione del cosiddetto “comunismo scientifico” (come se il comunismo potesse essere concepito come un cantiere in costruzione diretto da ingegneri, architetti e geometri), ma anche e soprattutto l’inutile accanimento contro l’esperienza religiosa, che poi di fatto ha portato il pensiero marxista a regredire da Hegel a Voltaire ed a rifluire-confluire nel cosiddetto “laicismo”, una forma di occidentalismo che pretende oggi di insegnare al mondo intero che Dio non esiste, mentre invece esistono il monoteismo del mercato e la divinizzazione dell’economia.
Mi scuso ancora per la ripetizione, ma sono egualmente sicuro che per la stragran-de maggioranza dei lettori essa è completamente inutile, perché sconvolge troppe opinioni consolidate per essere accettata. Non si veda in questo uno stucchevole pes-simismo. Si tratta soltanto di una consolidata esperienza.
12. Ora, però, bisogna dare l’ultimo colpo di martello al chiodo perché si ficchi bene nel muro. L’eredità del pensiero di Marx, di cui la teoria dicotomico-bipolare-messianica delle classi è parte integrante, può essere compresa, e quindi “riscossa”, soltanto sulla base di due ultime premesse. In primo luogo, la teoria di Marx non è né di sinistra né di estrema sinistra, ma del tutto al di fuori della dicotomia Destra/ Sinistra. In secondo luogo, la teoria di Marx appare comprensibile soltanto al di fuori del cosiddetto “progressismo”, ma è leggibile invece all’interno di un pensiero tradi-zionale europeo (tradizionale, non conservatore o tradizionalistico).
La cosa mi sembra personalmente ovvia, ma è talmente spaesante e scandalosa da meritare una serie di pacate considerazioni.
In nessun punto della sua opera, ma proprio in nessuno, Marx afferma o sostiene di essere di “sinistra”. Dunque, non esistono argomenti filologici per poterlo sostene-re. La cosa è però data per scontata, sulla base intuitiva della tesi di Norberto Bobbio, per cui la sinistra sarebbe stata storicamente caratterizzata dal parametro dell’egua-glianza, e quindi della dicotomia opposizionale Eguaglianza/Disuguaglianza. Ma
Marx non parla quasi mai di eguaglianza, ed individua anzi il capitalismo come società dell’eguagliamento astratto universale nella forma della merce (la cui disu-guaglianza può sorgere soltanto sulla base di un uguagliamento formale ed astratto preventivo), e parla semmai di libera individualità e di proprietà individuale come coronamento finale di una storia universale caratterizzata prima dalla dipendenza personale (schiavistica e feudale) e poi dalla indipendenza personale (capitalistica).
Da dove si origina l’idea di sinistra? Essa si origina dall’illuminismo, il quale pensa se stesso su base dicotomica contrapponendosi all’oscurantismo, per cui il suo modo di autorappresentarsi è bipolare (illuminismo/oscurantismo). La dicotomia sinistra/ destra è in proposito una evoluzione storica posteriore della precedente dicotomia illuminismo/oscurantismo, il che porta come sua conseguenza il fatto che il codice teorico della sinistra è di tipo progressistico-illuministico. Ma il codice di Marx non deriva da Voltaire, ma da Hegel, e non è un codice dicotomico-opposizionale, ma concettualmente unitario. Esso parte idealisticamente dall’Idea (con la maiuscola) di storia universale autoriflessiva del genere umano, o più esattamente dalla totalità concettualmente espressiva di questa stessa storia universale autoriflessiva del ge-nere umano. Questa totalità espressiva non è però concepita in modo religioso come rivelazione astorica ed atemporale di una verità eterna precedente la storia, ma come progresso dell’autocoscienza. Questo con la cosiddetta “sinistra” non ha letteralmen-te nulla a che fare. La sinistra si pensa in modo opposizionale alla destra, e ritiene (con falsa coscienza necessaria) di stare dalla parte del progresso contro la reazione, dell’illuminismo contro l’oscurantismo, del Bene contro il Male, eccetera.
Ma c’è di peggio. Come ha correttamente rilevato il sociologo francese Luc Bol-tanski, la “sinistra” ha avuto un ruolo storico positivo soltanto fino a quando (e cioè non oltre il mitico Sessantotto) si è mantenuta l’alleanza fra la critica economico-sociale alle ingiustizie del capitalismo e la critica artistico-culturale all’ipocrisia della borghesia. Ma dal momento in cui la borghesia ha “liberalizzato” i suoi precedenti costumi autoritario-patriarcali questa alleanza si è rotta. E come ha rilevato il filosofo francese Michéa, la sinistra si è trovata in una situazione schizofrenica, per cui ha adottato la concezione liberale dei costumi alla Smith rifiutandone le conseguenze economiche, laddove i due aspetti sono strettamente interconnessi.
L’interpretazione “progressista” di Marx è quindi un suicidio programmato a tem-po. Come ha a suo tempo correttamente rilevato Georges Sorel, il progresso è una illusione. Esiste un progresso nella medicina e nella chirurgia. Esiste un progresso in farmacologia. Esiste un progresso nei trasporti e nelle comunicazioni. Esistono decine di “progressi” di questo tipo. Ma la metafisica del Progresso è semplicemente una ideologia di (auto)legittimazione della borghesia europea settecentesca, in cui al tempo ciclico della riscossione della rendita fondiaria (legata al ciclo naturale delle stagioni) si è sostituito il tempo lineare dell’attesa della maturazione dei profitti in-dustriali e finanziari. Niente di meno, ma anche niente di più. Come dice la cultura universitaria per complicare inutilmente le cose, le “cose sono indubbiamente più complesse”. Sono complesse, ma sono anche semplici. Per dirla in latino, simplex sigillum veri.
In realtà, Marx è stato un pensatore tradizionale. Indubbiamente non se ne è ac-corto, e questo è un dato filologico rilevante, ma non concettualmente decisivo. Marx si è ricollegato alla tradizione occidentale, nata addirittura con i presocratici (e con Socrate, l’ultimo dei presocratici), che ha esaltato la reazione politica comunitaria contro l’irruzione dell’individualismo anomico e distruttivo. Marx, che non era cer-tamente un “reazionario”, reagisce alla novità dell’individualismo politico (Locke, il-luminismo) e dell’individualismo economico (Hume, Smith), riformulando il vecchio comunitarismo precapitalistico in un nuovo comunitarismo (da lui definito comuni-smo), che tiene conto della nascita irreversibile dell’individuo critico moderno, e non ha quindi nulla a che fare con i vari nostalgismi di tipo organicistico para-feudale.
Ed ora, tiriamo le conseguenze di questi sei punti interpretativi che sconvolgono le vecchie concezioni ripetute da due secoli.
13. La rincorsa è stata lunga, ma è stata lunga perché l’asticella del salto è stata posta molto in alto. Fuori della metafora del salto, della rincorsa e dell’asticella, si tratta in realtà di un fatto che può essere espresso in modo semplice: quando un inte-ro scenario storico abituale viene a mancare, non bastano più le cosiddette “teorie di media portata” (middle-range theories).
Ma cosa significa esattamente teorie di media portata? Significa teorie che pren-dono certamente atto dell’insufficienza descrittiva delle teorie tradizionali, ma non osano andare fino in fondo, si fermano per opportunismo a mezza strada, e così ritardano per decenni quelle che il grande epistemologo americano Kuhn ha corret-tamente definito “rivoluzioni scientifiche”. Ma spieghiamoci meglio.
Per spiegare la genesi e lo sviluppo delle teorie di media portata bisogna tener conto di almeno tre elementi. In primo luogo, la teoria di media portata (che Kuhn preferisce chiamare la teoria delle aggiunte ad hoc e delle eccezioni all’interno di un precedente paradigma scientifico in manifesta crisi) insorge inevitabilmente quando una precedente formulazione si rivela palesemente falsa o ineffettuale. Ad esempio, il cristianesimo primitivo nacque come attesa messianica del secondo avvento di Cri-sto (parousia). Ma dal momento che questa attesa messianica non si decideva a compiersi, fu necessario rimodellare e riformulare l’intera speranza cristiana in raziona-lizzazione simbolica della vita quotidiana (Max Weber). Qui, più che di una teoria di media portata, si tratta di un adattamento necessario alla sopravvivenza (una sua variante immensamente più miserabile e meno interessante del precedente esem-pio cristiano è il passaggio della socialdemocrazia alla preparazione dell’alternativa socialista al capitalismo alla gestione sindacale e politica degli interessi dei salariati nel capitalismo – ma oggi la socialdemocrazia è immensamente più degradata e non adempie neppure a questa funzione elementare).
In secondo luogo, l’elaboratore della teoria di media portata non osa andare trop-po oltre, perché è psicologicamente bloccato dalla precedente adesione alla teoria tradizionale. Gli sembra di commettere un sacrilegio se si spinge troppo oltre, ed allora cerca di conciliare la sua inquietudine con le sue esigenze teoriche con un com-promesso, che è appunto la teoria di media portata.
In terzo luogo, infine, l’elaboratore della teoria di media portata ritiene che, facen-do compromessi con la teoria precedente, potrà avere migliore accoglienza presso i destinatari sociali e politici della teoria stessa, che certamente respingerebbero una versione troppo osée della teoria stessa. In questo modo, però, non si esce da una crisi sociale, politica e filosofica. Nella fattispecie del discorso che stiamo facendo, è il caso della teoria marxista delle classi. Ma facciamo ora alcuni esempi concreti, per farci capire meglio.
Il grande astronomo Ticone (Tycho Brahe) elaborò a suo tempo una tipica teoria di media portata. Da un lato, era convinto della teoria di Copernico, dall’altro sapeva che tutti i poteri politici del tempo, non importa se cattolici o protestanti, non avreb-bero mai potuto accettare l’eliocentrismo e avrebbero difeso fino in fondo il modello geocentrico, metafora della centralità simbolica degli apparati ecclesiastici all’interno della legittimazione sociale complessiva feudale e signorile. Ne derivò il modello astronomico di Ticone, in cui il sole girava ancora intorno alla terra, ma tutti gli altri pianeti giravano invece intorno al sole. Ecco un magnifico esempio di teoria di media portata.
In linea di massima, tutte le varianti del luxemburghismo e del trotzkismo sono esempi novecenteschi di teoria di media portata. Da un lato, appare chiaro che il proletariato non riesce assolutamente a costruire quella meravigliosa società armo-nica ed autogestita promessa dai classici del marxismo. Dall’altro, si introduce im-mediatamente l’ipotesi della deformazione burocratica per spiegare perché questa promessa non ha potuto essere mantenuta (mancanza della rivoluzione permanente, basso livello delle forze produttive, impossibilità di un socialismo in un solo paese, eccetera). Questa teoria di media portata, equivalente del modello astronomico di Ticone, non sta né in cielo né in terra, ma crea una traballante sintesi compromissoria che salva, a suo modo, capra e cavoli.
Ma oggi, ormai, la capra ha mangiato i cavoli. E’ finito il periodo sia delle ortodos-sie oniriche sia delle teorie di media portata. E questo vale per tutto, ma nel nostro caso vale soprattutto per la teoria delle classi sociali oggi, marxiana e non.
14. Dal momento che oggi nessuno di noi può sapere se in futuro una società senza classi potrà mai esistere, è evidente che in assenza di prefigurazione “scientifica” del futuro (che, se esistesse, sarebbe un incubo certamente non auspicabile) è necessario fare il cammino inverso, e riportarci al passato. Nel lontano passato, anche i bambini lo sanno dai disegni colorati delle enciclopedie per ragazzi, c’erano i cosiddetti “pri-mitivi”. Ora, una cosa è assolutamente sicura, e cioè che i primitivi non sapevano di essere tali. Non si tratta semplicemente di una battuta più o meno spiritosa, ma di un’assunzione di prospettiva molto importante. Il “primitivo”, infatti, è una creazione integrale dell’età moderna, che oscilla fra il Barbaro da Civilizzare ed il Buon Selvaggio da cui imparare il vero comportamento “naturale”. Ma questo “primitivo” era già del tutto storico come lo siamo noi, ed il ritenerlo “naturale” è una mistifica-zione ideologica, su cui si è costruita gran parte della nostra cultura.
Il cosiddetto “primitivo” non solo non sapeva di essere tale, ma non era né catti-vo, né buono, né ricco né povero. I poveri sono tali solo in rapporto contrastivo con i ricchi, e pertanto i poveri sono una creazione integrale della società divisa in classi. Nel “grado zero” della società i poveri non esistevano. Esistevano gruppi sociali che vivevano in forte penuria di risorse, eliminavano i bambini malformati e lasciavano morire i vecchi, senza che questo potesse essere analizzato in termini etici e morali.
Tutto questo, peraltro, è largamente noto. Più difficile, invece, è connotare con una categoria adeguata queste società di caccia e raccolta. Il termine di “comunismo primitivo”, tipico della tradizione marxista, mi sembra inesatto, ed anche un po’ ide-ologico, rivolto a far pensare che il comunismo, se in passato è esistito (sia pure ad un basso livello di sviluppo delle forze produttive), nello stesso modo potrà esistere anche in futuro (ovviamente ad un altissimo livello di sviluppo delle forze produtti-ve). Si apre così lo spazio ideologico di una grande narrazione economica circolare, per cui l’umanità andrebbe da un comunismo per poveri ad un comunismo per ric-chi. Niente di male, ma questo non mi soddisfa per nulla. Preferisco di gran lunga le grandi narrazioni utopiche edificanti al cinismo relativistico disincantato di oggi, ma questa preferenza personale non risolve il lato storico e filosofico della questione.
In termini marxiani (anche se lo stesso Marx non usa mai il termine) preferirei parlare di modo di produzione comunitario, che non è altro però che un generico minimo comun denominatore che al numeratore presenta infinite varianti climati-che, geografiche e produttive. Lo storico ed africanista Hosea Jaffe utilizza il termine di “dispotismo comunitario” per indicare il passaggio da un ordine sostanzialmente privo di classi (con la divisione del lavoro sociale limitata ai rapporti fra uomini e donne e fra giovani ed anziani, e cioè sessi e classi d’età) ad un ordine che è ancora strutturato in forma comunitaria, ma presenta già una forma classista con una appro-priazione diseguale e gerarchica del plusprodotto sociale.
Il termine non è perfetto, ma è migliore di altri, e possiamo per il momento usarlo. Dal momento che personalmente ritengo il comunismo storico novecentesco real-mente esistito (da distinguere dal comunismo utopico-scientifico di Marx) una forma recente di dispotismo comunitario, la parola mi piace, perché ci ricorda che una co-munità può anche essere dispotica, ed in questo modo ci “vaccina” da ogni idealizza-zione del collettivismo in sé. Non è molto, ma è già abbastanza per cominciare a dare uno sguardo disincantato sulla storia universale del genere umano. Dal momento che le illusioni generano sempre dialetticamente le delusioni, è meglio non farsi illu-sioni fin dal principio.
15. Non c’è qui lo spazio, e neppure la necessità, di ripercorrere sia pur sintetica-mente l’intera storia della civiltà detta occidentale attraverso i suoi principali succes-sivi tre modi di produzione (schiavistico, feudale e capitalistico). Basti qui rilevare che questa successione non ha assolutamente avuto un carattere necessitaristico e predeterminato. Il modo di produzione schiavistico antico avrebbe potuto evolversi in modo autonomo ed endogeno interno, se non fosse intervenuto il fatto aleatorio delle invasioni germaniche, a loro volta propiziate da un fatto altrettanto aleatorio come la pressione di popolazioni nomadi asiatiche. A sua volta (e ricordo qui convin-centi studi di Robert Brenner e di Perry Anderson) la stessa nascita del capitalismo in Inghilterra non è affatto stata lo sbocco necessario di una fantomatica e magica crescita delle cosiddette forze produttive, ma il frutto di una specifica congiuntura aleatoria.
Un solo aspetto voglio qui evidenziare e sottolineare. Ho insistito molto in prece-denza sul fatto che per Marx le classi fondamentali, sempre e solo due per ogni modo di produzione, sono semplicemente degli “attrattori” storici per la riproduzione del-lo stesso modo di produzione. Nella storia, fino ad oggi, la classe sfruttata non è mai stata la classe rivoluzionaria intesa in senso di vettore inter-modale (di passaggio cioè da un modo di produzione a quello successivo). Non lo è stata in tutte le varianti del modo di produzione schiavistico, in cui gli schiavi, nonostante importanti rivolte, non sono stati mai coloro che hanno promosso il passaggio ad un modo di produzio-ne successivo (con la sola parziale eccezione delle grandi rivolte di Haiti al tempo di Toussaint l’Ouverture). Al tempo della fine del mondo antico, il passaggio al proto-feudalesimo fu propiziato non certo da rivolte di schiavi, ma dalla fusione fra classi dirigenti germaniche e latine, all’interno di un processo endogeno di passaggio ad una economia di latifondo e di autoconsumo. Per quanto riguarda la fine del modo di produzione schiavistico di piantagione negli USA, esso avvenne al tempo della cosiddetta guerra di Secessione, nel contesto di uno scontro fra fazioni rivali della classe dominante, la borghesia industriale del Nord e la borghesia schiavistica ed agraria del Sud.
Nel passaggio complesso dal modo di produzione feudale a quello capitalistico in Europa il ruolo delle rivolte dei servi della gleba (che pure non mancarono certa-mente) fu pressoché irrilevante. Il passaggio fu compiuto ad opera dei ceti sbrigati-vamente definiti come “borghesi”, e più esattamente dal loro settore manifatturiero alleato con settori commerciali e di nobili terrieri passati allo sfruttamento capitalisti-co per il mercato delle loro proprietà.
E allora, perché Marx ha individuato il proletariato come classe rivoluzionaria strutturale, e cioè inter-modale, se l’analogia storica avrebbe dovuto suggerirgli che in passato, ed in ben due situazioni strutturali, le due classi sfruttate fondamentali non furono in entrambi i casi dei fattori sociali rivoluzionari?
Bisogna partire da questo enigma, e potremo forse procedere nel nostro discorso.
16. Sarebbe certamente utile se si potesse andare ad intervistare il signor Karl Marx su alcuni punti controversi della sua opera. Ma questo è impossibile, perché il si-gnor Karl Marx è morto nel 1883, e l’evocazione delle anime dei defunti attraverso i tavolini che ballano non da’ sufficienti garanzie epistemologiche. Ma neppure la citatologia può esserci di aiuto, perché la citatologia marxiana è spesso contradditto-ria (come la citatologia neotestamentaria, del resto), e dipende da quale citazione si sceglie per sostenere una certa posizione teorica contro un’altra. Questo non mi scan-dalizza affatto, perché anche la mia interpretazione di Marx (elaboratore del senso di colpa della coscienza infelice borghese, utopista scientifico, pensatore tradizionale, eccetera) deriva da una scelta citatologica differenziata, inevitabilmente arbitraria.
Questa premessa metodologica è utile per comprendere l’inevitabile soggettività della mia interpretazione della genesi teorica e psicologica della funzione salvifica ed inter-modale del proletariato in Marx. Essa a mio avviso non ha nulla di economico e di strutturale, ma deriva in ultima istanza da un’opera filosofica, la Fenomenologia dello Spirito di Hegel. In questa opera, che è una storia romanzata della coscienzaumana astrattamente unificata in una sola soggettività (la vecchia sostanza unitaria di Spinoza pensata “risolutamente” come oggetto autocosciente), e più esattamen-te un romanzo di formazione romantico (Bildungsroman) della storia universale del genere umano, la decisiva figura del rapporto fra servo e signore (o se si vuole fra schiavo e padrone) fa derivare geneticamente l’idea di libertà dall’esperienza diretta della sua mancanza, ed in questo modo si oppone a tutte le posizioni astoriche sulla libertà, come ad esempio la postulazione kantiana del libero arbitrio, affermato ma non geneticamente dedotto. Ma il punto fondamentale della trattazione hegeliana del problema sta in ciò, che il lavoro è visto come la matrice essenziale ed indispensa-bile del conseguimento della libertà (in termini hegeliani, del concetto, che è il coro-namento della scienza della logica, scienza filosofica e non certo scienza empiristico-positivistica). Lo schiavo lavora per due, per se stesso e per il padrone, ed in questo modo può comprendere che il padrone gioca solo un ruolo parassitario, perché non può esistere padrone senza schiavo, mentre può esistere schiavo senza padrone, pur-ché ovviamente lo schiavo diventi libero, libertà metaforizzata attraverso il processo idealistico del passaggio dall’In Sé al Per Sé.
A mio avviso, questa non solo è la genesi del concetto salvifico di proletariato in Marx, ma è l’unica genesi decisiva. In proposito, credo che non sia affatto casuale il ri-torno ossessivo del termine contraddittorio di “schiavitù salariata” in Marx, oggetto di un recente illuminante studio di Diego Fusaro. In termini di modi di produzione, a Marx è perfettamente chiaro che il libero lavoratore salariato non è uno schiavo. Ad uno schiavo non si può estorcere plusvalore attraverso un (apparente) scambio di equivalenti, ma soltanto un plusprodotto attraverso la coercizione fisica diretta. E tuttavia il ritorno ossessivo del termine di “schiavitù salariata” fa capire che freudia-namente l’inconscio ed il rimosso ritornano continuamente, in questo caso il continuo ritorno della figura hegeliana del rapporto fra servo e signore. Il proletariato, questa incarnazione industriale moderna dell’eterno ritorno della sempre eguale schiavitù salariata (ho volutamente impiegato un’espressione nicciana, perché è bene che il lettore esperisca un po’ di sano spaesamento), è in grado di abbattere il capitalismo perché il suo “concetto” (la sua tendenza cioè all’autocoscienza libera) lo porta a comprendere che il padrone è inessenziale, parassitario, e quindi rimuovibile.
È così? Non credo proprio che sia così. La classe dei padroni capitalisti non è affatto una classe parassitaria (del resto, neppure la classe dei nobili feudali lo era). Si tratta di una classe attiva ed operante di agenti sociali della riproduzione capita-listica. Ma per ora è sufficiente capire dove stia la genesi filosofica della concezione salvifico-messianica del proletariato in Marx.
17. Esiste in Marx una teoria dell’inevitabile crollo del capitalismo, ricavato per via strettamente economica? Su questo gli interpreti sono divisi. Alcuni dicono che la teoria del crollo economico endogeno del capitalismo risale a Marx (e si ingegnano a trovare la citatologia di servizio per garantire la sacrale autorità di questa tesi), altri dicono che Marx ne è del tutto innocente, si è limitato a parlare di “tendenze”, ed i teorici del crollo fanno tutti parte del marxismo della Seconda Internazionale (1889-1914). Personalmente, detto in sintesi telegrafica, penso che l’idea originale del crollo sia di Marx (o meglio, di un certo Marx contraddetto da un altro Marx), mentre la sua paranoica sistematizzazione sia dovuta agli economisti marxisti del socialismo del tempo.
La “dimostrazione” del crollo del capitalismo per ragioni esclusivamente economi-che mi ha sempre irresistibilmente ricordato la dimostrazione teologica dell’esisten-za di Dio per via puramente logica. Ma così come la dimostrazione logica dell’esi-stenza di Dio, pur essendo spesso impeccabile logicamente, non riesce egualmente a far credere in Dio lo scettico e l’ateo, nello stesso modo (ed anzi in modo molto più ridicolo) la dimostrazione logica del crollo del capitalismo, pur essendo impeccabile, non riesce egualmente a far crollare il capitalismo. Evidentemente il capitalismo, già logicamente morto, sopravvive soltanto per autosuggestione.
Tutto ciò non deve affatto stupire, perché i teologi e gli economisti ragionano en-trambi sulla base di uno schematismo razionalistico, anche se io personalmente pre
ferisco di gran lunga i primi ai secondi, perché almeno i primi hanno come ogget-to l’intera esperienza umana, sia pure filtrata da presupposti creazionistici, mentre i secondi isolano dall’esperienza umana nella sua totalità un fattore ipostatizzato chiamato homo oeconomicus, come se questa caricatura utilitaristica astratta fosse real-mente il soggetto complessivo della storia. In ogni caso, per finire (il discorso infatti sarebbe lungo, ma non può essere fatto in questa sede), chi crede alla dimostrazione matematico-economica del crollo del capitalismo farebbe meglio ad aspettare l’ar-rivo di astronavi extra-terrestri, che a partire dalle Centurie di Nostradamus colloco nella sera del 28 settembre 2246, salvo imprevedibili ritardi dovuti a buchi neri.
18. Dal momento che è ignota l’architettura del domani, nessuno oggi può sapere se, come e quando il modo di produzione capitalistico potrà essere sostituito e di-ventare come il modo di produzione schiavistico, un episodio della storia generale dell’umanità. Una delle poche cose di cui mi sento (quasi) sicuro è l’ipotesi per cui non sarà certamente sostituito dalla generalizzazione della previsione utopico-scien-tifica di Marx (di cui a scanso di equivoci resto un ammiratore, ed anche in un certo senso un allievo), una sorta di comunismo senza famiglia, società civile e stato, una società trasparente e pacificata in cui ognuno darà secondo le sue capacità e riceverà secondo i suoi bisogni ed in cui trionferà l’armonia prestabilita di unità economiche autogestite in cui la forma di merce sarà complessivamente sparita.
Ognuno può credere ovviamente in cosa vuole, anche nella resurrezione paolina dei corpi. Ma purtroppo non ho ricevuto la grazia di questa fede.
E tuttavia, anche se questo comunismo utopico è a mio avviso del tutto impro-babile, e deriva da una correzione positivistica della precedente fine della storia messianico-escatologica (ma chi è senza peccato scagli la prima pietra), e sarebbe quindi meglio congedarsene educatamente “senza rancore” (come dice una vecchia canzone), storicizzandolo e collocandolo nel contesto culturale in cui è sorto (tardo-romanticismo e proto-positivismo), non per questo bisogna forzatamente aderire alla oscena e vergognosa concezione della fine capitalistica della storia. Il fatto che oggi essa venga predicata dal cento per cento degli economisti e dal novanta per cento dei filosofi, dei sociologi e dei giornalisti non significa certamente che sia vera. Personal-mente, in mancanza di una concettualità più esatta, mi limito a parlare di un futuro possibile (a breve termine impossibile, ed a medio termine improbabile) modo di produzione comunitario, con vari gradi di economia mista, espropriazione demo-cratica su base statale del grande capitale finanziario, sgombero delle basi militari imperiali ed imperialiste, sistemi sanitari integralmente pubblici, eccetera. Più di così non riesco veramente ad immaginare.
Un’osservazione in proposito. Il mantenimento “ortodosso” della concezione uto-pica marxiana di comunismo, apparentemente radicale, estremistico e di “sinistra”, in realtà funzionale all’orizzonte della fine capitalistica della storia. Dal momento che esso appare oggi del tutto impossibile, e simile al paradiso terrestre dei Testimo-ni di Geova (nei cui opuscoli famigliole rigorosamente monorazziali fanno giocare i bambini con tigri e leoni addomesticati), si finisce per ritenere possibile soltanto il mondo capitalistico. Questa è anche la funzione di teorie universitarie come quelle dell’Impero e delle Moltitudini di Toni Negri, il cui successo è direttamente propor-zionale alla loro totale pittoresca inapplicabilità. Il loro ruolo è esattamente quello del gioco delle tre carte negli atrii delle stazioni, con la sola differenza che i campagnoli ingenui e cretini che ne cadevano vittime erano comunque antropologicamente mol-to superiori alle boriose tribù accademiche postmoderne.
19. Torniamo sulla questione dei cosiddetti “ceti medi”, e chiediamoci ancora una volta perché nella teoria marxiana delle classi essi non abbiano che un ruolo mar-ginale e residuale. E’ ovvio che in una visione bipolare e dicotomica, in cui le classi fondamentali sono semplici “attrattori magnetici”, il loro ruolo non può che essere minimo. Ma tutto questo, benché essenziale, non basta. A mio avviso, il fatto di es-sere privi per natura di qualunque natura e funzione messianico-rivoluzionaria, ma l’essere visti come semplici camere di compensazione provvisorie per l’imborghesi-mento vero e proprio e/o per la proletarizzazione, ha giocato un ruolo decisivo nella concezione di Marx.
E tuttavia, il problema è soltanto sfiorato, anche se il suo aspetto principale sta in ciò, che al tempo di Marx il cosiddetto “terziario” era ancora modestissimo, e la società era ancora composta da una stragrande maggioranza di contadini, artigiani ed operai, con un ceto tecnico ed impiegatizio già presente, ma certamente non nella misura in cui lo è oggi.
C’è ancora un altro elemento. Marx era affascinato dalla distinzione fra il lavoro produttivo e il lavoro improduttivo, distinzione che derivava direttamente dalla sua accettazione, sia pure critica, della teoria del valore-lavoro di Smith e Ricardo. E’ vero (qui accetto integralmente l’interpretazione a suo tempo data una quarantina di anni fa da Lucio Colletti e da Claudio Napoleoni) che l’essenziale della teoria di Marx sta nella fusione della teoria economica del valore con la teoria filosofica della aliena-zione (colgo qui l’occasione per ribadire la mia totale estraneità alla condanna della categoria di alienazione fatta da Althusser e dai suoi seguaci), ma resta il fatto che la centralità della distinzione fra lavoro produttivo (di plusvalore) ed improduttivo (pagato con un reddito già precedentemente costituito) porta Marx a ridurre spesso i ceti medi del tempo o a “soprastanti” (sic!) o a residui storici destinati ad essere su-perati dal processo di concentrazione capitalistica.
Non ha senso rimproverare a posteriori Marx per non avere adeguatamente previ-sto un processo storico non ancora sviluppato al suo tempo. Ha in vece senso riflet-tere su quello che è successo dopo il 1883, anno della sua morte.
20. In estrema sintesi, dopo la morte di Marx la questione dei ceti medi è in certo senso “esplosa”. Mi rendo conto che il termine “ceti medi” è largamente improprio, è un concetto-ripostiglio in cui ci si può mettere di tutto ed il contrario di tutto, ma in questa sede si può scusare una certa imprecisione, per cercare di mirare all’essen-ziale. Personalmente, non sono neppure d’accordo ad identificare i ceti medi con la cosiddetta “piccola borghesia”. La piccola borghesia è una classe culturale, la cui co-scienza infelice fa da fattore di critica al liberalismo politico, evidente copertura della riproduzione capitalistica, e che porta perciò secondo i momenti storici indifferente-mente al fascismo e/o al comunismo (dal punto di vista dell’origine sociale Antonio Gramsci e Benito Mussolini sono praticamente indistinguibili, in quanto figli della piccola borghesia provinciale italiana). I ceti medi, invece, tendono a definirsi non in termini di ideologia politica o di cultura critica, ma in termini di status, di consumi, di aspettative crescenti, eccetera.
Marx non avrebbe probabilmente mai immaginato che questa instabile galassia dei ceti medi sarebbe stata storicamente il principale fattore di impedimento verso un’evoluzione socialista della società capitalistica moderna, e questo in almeno tre casi storici.
In primo luogo, nel periodo storico 1870-1915 i ceti medi sarebbero stati la pun-ta avanzata della nazionalizzazione colonialistica, razzistica ed imperialistica delle masse, prima nei confronti delle cosiddette “razze inferiori”, e poi addirittura nel grande macello sanguinoso impropriamente definito “grande guerra 1914-18” nei libri di storia.
In secondo luogo, nel periodo storico 1917-1991 (trascuro qui come secondaria la stessa rottura bellica del 1939-1945), i ceti medi sarebbero stati nella maggior parte dei paesi capitalistici la base sociale della opposizione elettorale, politica e culturale al socialismo ed al comunismo. Non è affatto un caso, infatti, che dopo il 1991 essi “non servano più”, e che si stiano innescando processi che in linguaggio marxista sarebbero stati chiamati “proletarizzazione massiccia dei ceti medi”, e che personal-mente preferisco chiamare “plebeizzazione postmoderna di massa”, per far notare che dal momento che il vecchio proletariato non esiste più diventa impossibile “pro-letarizzarsi”.
In terzo luogo, infine, nel periodo storico 1956-1991, nei paesi cosiddetti “sociali-sti”, i nuovi ceti medi “comunisti” emersi dal processo di modernizzazione dell’eco-nomia sono stati il vettore essenziale per la restaurazione selvaggia del capitalismo. Certo, il discorso dovrebbe essere più preciso ed articolato, ma questa centralità “reazionaria” dei ceti medi in occasioni storiche tanto diverse come le tre sopraindicate deve far riflettere chi ha ancora voglia di farlo.
21. In estrema sintesi, a differenza del grande Karl Marx, io penso che la dicoto-mia Borghesia/Proletariato, al netto dei suoi elementi messianici imperfettamente secolarizzati, non contraddistingua tautologicamente l’intero arco temporale dello sviluppo del modo di produzione capitalistico propriamente detto, ma ne caratteriz-zi soltanto un periodo storico temporaneo, sia pure bisecolare (1789-1989 circa). Lo contraddistinguerebbe, ovviamente, se a questi due termini dessimo un significato puramente economico, in termini di proprietà privata o meno dei mezzi di produ-zione sociali. In questo caso, ovviamente, la sociologia sarebbe facile come le quattro operazioni della scuola elementare, per cui basterebbe sottrarre dall’intera popola-zione la somma dei proprietari privati dei mezzi di produzione, e si avrebbero così le due classi fondamentali, con un resto di intermedi destinati prima o poi a cadere di qua o di là.
In realtà, la tendenza del capitalismo assoluto contemporaneo è quella di procede-re verso una polarizzazione fra oligarchie post-borghesi, da un lato, ed una plebeiz-zazione massiccia stratificata post-proletaria, dall’altro. Si è di fronte allora ad una sorta di paradosso ossimorico, per cui il massimo del capitalismo assoluto coincide con una inedita rifeudalizzazione sociale.
Ma spieghiamoci meglio.
22. All’inizio di questo saggio ho parafrasato una citazione del primo libro del Capitale di Marx dove Marx, in modo chiaro come il cristallo, afferma che ciò che caratterizza il modo di produzione capitalistico rispetto alle formazioni sociali pre-capitalistiche (teocrati etruschi, boiardi valacchi, eccetera) non è tanto la dicotomia opposizionale Borghesia/Proletariato, quanto la generalizzazione a tutte le società della prevalenza del valore di scambio sul valore d’uso, e quindi la mercantilizzazio-ne universale di tutti i rapporti sociali.
Questo mi ricorda la novella di Edgar Allan Poe sulla lettera rubata, che si trat-tava di ritrovare, e che tutti gli sciocchi cercatori cercavano nei posti più impensati.
Laddove era sotto gli occhi di tutti, ed appunto perché era sotto gli occhi di tutti, nessuno la cercava lì. Ora, il primo libro del Capitale (1867) è sempre stato sotto gli occhi di tutti, e quindi non c’è bisogno di incamminarci verso interpretazioni strane e paradossali per capire che l’enigma del capitale sta lì scritto in caratteri capitali, e che possiamo riassumere così: il modo di produzione capitalistico è stato certamente costruito ad opera di un soggetto sociale collettivo convenzionalmente (ed impro-priamente) chiamato “borghese”; nel corso di questa costruzione è stato certamente creato il proletariato moderno, senza il quale sarebbe stato impossibile la “libera” estorsione del plusvalore; e tuttavia, il cuore di questo sistema non sta affatto nella riproduzione infinita della bipolarità Borghesi-Proletari, ma sta nella generalizzazio-ne della forma di merce a tutti gli ambiti della riproduzione umana sulla terra, in una situazione in cui i vecchi profili politico-culturali sia della borghesia che del proleta-riato non esistono neppure più.
Mentre la scolastica marxista, conservatrice come e più dello stesso clero zoroa-striano, si ostina a ripresentare uno scenario finito da tempo, alcuni liberi studio-si intelligentemente sembrano cominciare a capire. Gianfranco La Grassa non parla più di borghesia e proletariato, ma soltanto di dominanti e dominati, e soprattutto non usa più il termine di “borghesia”, ma soltanto il termine struttural-funzionale di agenti attivi della riproduzione capitalistica. Gli studiosi italiani Badiale e Bontem-pelli usano il termine di “capitalismo assoluto”, per indicare il superamento della fase “relativa” della produzione capitalistica, quando quest’ultima doveva ancora entrare in “relazione” con l’insieme dei comportamenti etici, religiosi e familiari della borghesia tradizionale. Una corrente del pensiero marxista greco con la quale sono in contatto usa il termine di “capitalismo totalitario”, per indicare la presa di possesso integrale da parte della produzione capitalistica di tutti gli aspetti della riproduzione sociale complessiva. A me pare però evidente che i due termini di capitalismo asso-luto e di capitalismo totalitario sono in realtà coincidenti, perché esprimono lo stesso concetto.
Tuttavia, io preferisco un’altra connotazione, quella di capitalismo speculativo post-borghese, o se vogliamo di capitalismo neofeudale senza classi. La prima for-mulazione mi sembra migliore della seconda, e cercherò di spiegare brevemente il perché.
23. Il termine “speculativo” deriva dal lessico specialistico della logica dialettica di Hegel, ed indica lo stato finale di autocoscienza integrale dello svolgimento di un complesso storico, che può finalmente riconoscersi come in uno specchio (latino speculum). I due stadi precedenti sono per Hegel quelli astratto e dialettico, e quellospeculativo è appunto il terzo e ultimo. A me sembra che questa logica dialettica hegeliana si applichi meravigliosamente allo sviluppo del modo di produzione ca-pitalistico. Per capirlo, però, ci vuole l’avvertenza per cui non si deve pretendere di rispecchiare il corso storico di un fenomeno, ma soltanto il corso logico. E’ ovvio che tutti gli odiatori della logica hegeliana, che confondono l’ordine storico con l’ordine logico, si metteranno subito a gracchiare come cornacchie infuriate. Ma Marx non era fra questi. Volete una prova di quanto affermo? Essa sta nell’ordine espositivo del primo libro del Capitale (esposizione, Darstellung), che se fosse stato esposto in ordine storico avrebbe dovuto cominciare dal fondo (la cosiddetta accumulazione primitiva del capitale), mentre invece, essendo esposto in ordine logico, inizia con l’analisi dia-lettica della forma di merce, definita “sensibilmente soprasensibile”.
Mi scuso per il riferimento citatologico, da me generalmente evitato, ma in questo caso era purtroppo necessario. Non c’è qui lo spazio per una esposizione seria e det-tagliata del problema, che richiederebbe duecento pagine molto fitte, ma mi sembra corretto darne almeno una sommaria descrizione sintetica. Nella prima fase astratta della costituzione del concetto di capitale, si ha soltanto un termine della diade dialettica borghesia-proletariato, e cioè soltanto la borghe-sia, che si sta progressivamente liberando dei precedenti legami feudali e signorili, e quindi precapitalistici. Si ha qui la prima accumulazione del capitale, interna (Dobb) ed esterna (Sweezy). A livello filosofico, si ha la riduzione dei precedenti dualismi religiosi ad un rigoroso monismo concettuale, che rispecchia il monismo esclusivistico potenziale della produzione capitalistica. Viene compiuta una rigorosa costitu-zione puramente astratto-formalistica del soggetto conoscente ( il cogito di Cartesio, l’Io Penso di Kant). La morale viene ricostruita in senso puramente individualistico ed anti-comunitario, prescindendo interamente da ogni rivelazione divina (sempre Kant). Lo spazio viene unificato sotto l’unica categoria di materia (la borghesia è in-fatti una classe filosoficamente materialistica, non certo idealistica – l’idealismo ne è una sua eresia interna temporanea, non a caso culminata in Marx), mentre il tempo viene unificato sotto l’unica categoria di progresso. L’attività umana viene unificata sotto l’unica categoria di lavoro, in modo che la merce possa essere calcolabile nella forma del tempo di lavoro sociale medio contenuta in essa (Smith). Soprattutto, lo scambio capitalistico si basa su se stesso come manifestazione dei meccanismi di funzionamento della natura umana, prescindendo del tutto da fastidiose fondazioni esterne come la religione (critica del deismo), la filosofia (critica del diritto naturale) e dalla politica (critica del contratto sociale), e questa è opera del più grande pensatore “borghese” mai esistito, che non è a mio avviso Kant, ma è lo scettico scozzese Hume.
E tuttavia, si apre una seconda fase dialettica della produzione capitalistica, in cui la dialettica è data appunto dalla contrapposizione bipolare fra borghesia e proleta-riato. Si tratta della storia degli ultimi due secoli, che non riassumo qui presupponen-done la conoscenza nel lettore. A differenza di come possono pensare gli ingenui ed i fanatici, il capitalismo non è rafforzato, ma è indebolito dalla polarità fra borghesi e proletari nel senso tradizionale del termine. Finché c’è la polarità, c’è ovviamente la lotta di classe fra i due poli. Dalla parte del proletariato, c’è il progetto alternativo di una riproduzione sociale di tipo socialista e comunista. Dalla parte della borghesia, c’è sempre il pericolo che la borghesia voglia mantenere spazi di riproduzione familiare, etica e culturale non del tutto mercantilizzati (si pensi alla differenza fra Beethoven e Michael Jackson, fra Manzoni ed Umberto Eco, fra Hegel ed i pagliacci accademici postmoderni). E quindi il capitalismo, se vuole veramente corrispondere al suo concetto, deve tendere ad uno stato “speculativo” senza più classi, ma uni-camente caratterizzato da un continuum omogeneo di gradi differenziati di sapere, potere ed accesso differenziato al consumo.
Il discorso sarebbe soltanto incominciato, ma ritengo che il suo fondamento con-cettuale sia già comprensibile.
24. Il termine di “capitalismo senza classi” non suona convincente e credibile ad orecchie politicamente sensibili, e provoca di regola un’obiezione di questo tipo: “Ma come puoi pensare che oggi il capitalismo sia senza classi, quando da almeno un ventennio la globalizzazione neoliberale ed iperliberista ha approfondito le diffe-renze sociali e le distanze fra i ricchi ed i poveri del pianeta? Anzi, oggi è proprio il contrario! Mai come oggi le differenze di classe si sono tanto acuite! Noi viviamo in un crudele e svergognato capitalismo iperclassista, non certo in un capitalismo senza classi!”.
Questa ragionevole obiezione merita una risposta. In parte si tratta certo di un equivoco ideologico e terminologico. Dal momento che storicamente nell’ultimo se-colo sono stati i giullari sociologici del capitalismo a sostenere l’inesistenza della polarizzazione fra le due classi fondamentali borghesia e proletariato, si potrebbe pensare a prima vista che chi afferma una cosa del genere non faccia altro che rag-giungere questa numerosissima e ben pagata tribù di giullari. Ma non è così, ed anzi è esattamente il contrario. Un po’ di riorientamento gestaltico, per Dio!
Il capitalismo senza classi è anzi molto più vergognosamente diseguale e barbari-co di quello tradizionale, prima da me definito “dialettico” in linguaggio hegeliano. Il fatto che la forma di merce, assolutizzata e totalitaria, si impadronisca di tutti gli ambiti della riproduzione sociale, infrangendo persino i vecchi confini mobili delle identità storiche delle due classi fondamentali, porta ad una nuova polarità fra l’oli-garchizzazione, da un lato, e la plebeizzazione dall’altro. Ma l’oligarchia non è più borghesia, e la plebe non è più proletariato, così come i ceti medi declassati e resi “flessibili”, la cui fidelizzazione al sistema è soltanto più passiva ed ideologica, non sono più “piccola borghesia”.
Ma questo richiede alcune osservazioni supplementari.
25. Il concetto di capitalismo senza classi (ed insieme con differenziali crescenti di disuguaglianza in tutti gli ambiti della vita associata) è dunque solo una derivazione concettuale secondaria del concetto primario di capitalismo speculativo. Il concetto di capitalismo speculativo ci dice soltanto (ma è già moltissimo!) che la traiettoria storico-temporale del modo di produzione capitalistico non è caratterizzata dalla permanenza illimitata della dicotomia Borghesia/Proletariato (a meno che vogliamo limitarla alla pura definizione economica di proprietari privati o meno dei mezzi di produzione fondamentali), ma è caratterizzata da una dinamica illimitata di produ-zione di merci, il che comporta di conseguenza l’intrusione della forma di merce in tutti gli ambiti della vita quotidiana, salvati in vario modo dalle precedenti classi sfruttatrici, dispotico-comunitaria, asiatica, schiavistica, feudale, signorile e borghe-se-capitalistica.
Il concetto di capitalismo speculativo senza classi, peraltro, è puramente logico, e non serve per una diretta descrizione sociologica. Nello stesso modo, lo stesso con-cetto di modo di produzione capitalistico era sociologicamente inapplicabile, essen-do i due poli dicotomici puri “attrattori”. In nessuna concreta formazione economi-co-sociale del mondo è mai esistito un modo di produzione capitalistico puro. Nello stesso modo, oggi, il modo di produzione capitalistico speculativo senza classi è una pura tendenza dialettica, e nello stesso tempo concretamente è sempre utile per ora conservare empiricamente lo schema dicotomico, purché si sappia che è provvisorio anch’esso.
In India ci sono oggi non solo una borghesia indiana occidentalizzata ed un prole-tariato indiano classico, ma anche una struttura castale. In Cina esiste la più odiosa e selvaggia di tutte le borghesie, quella derivata direttamente dalla corruzione merca-tistica del partito comunista. In Russia l’accumulazione del capitale è per il momento opera non di una borghesia “civilizzata” di tipo europeo, ma di una inedita classe di baroni-ladri criminali e provocatoriamente sperperatori. La borghesia venezuelana cerca di abbattere il governo del benemerito Chavez. La borghesia iraniana cerca di abbattere il governo del benemerito Ahmadi Nejad. E potrei continuare a lungo con l’esemplificazione. La terra non è affatto piatta, ma il navigatore miceneo avrebbe potuto navigare con successo dalle coste della Spagna alle coste della Siria in base al presupposto (errato) che la terra lo fosse.
Il capitalismo può integralmente vedersi allo specchio (speculum) soltanto in una situazione di illimitata mercantilizzazione di tutti gli ambiti della vita. Questo è im-possibile in presenza di residui ideologico-culturali di tipo borghese e/o proletario. E’ questa la ragione di fondo perché tutta la grancassa mediatico-universitaria del capitalismo parla ossessivamente di fine delle ideologie. L’ideologia, sia pure in modo deformato, è pur sempre il terreno su cui si costruiscono identità collettive, laddove il capitalismo speculativo senza classi tende ad una individualizzazione esasperata della società. L’ideale sarebbe appunto una società talmente atomizzata da non es-sere composta altro che da una serie infinita di consumatori distinguibili soltanto in termini di profili monetari. Ma questo lo abbiamo già detto.
26. A questo punto, dovremmo chiudere qui questo breve saggio. E’ infatti im-possibile elaborare una convincente teoria generale di un fenomeno appena iniziato ed in fieri. Neppure il lettore più esigente può pretenderlo. E tuttavia alcune sparse osservazioni ulteriori non saranno inutili. Il lettore, però, non deve chiedere troppo.
Si tratta per il momento di poco più di una serie di appunti.
27. La riproduzione capitalistica è unitaria, e non si lascia quindi affatto disartico-lare in destra, centro e sinistra. Questa è la pura apparenza della superficie politica, ma non si tratta che di una simulazione (Baudrillard) di una società dello spettacolo (Debord). Tutti i fanatici e gli sciocchi ci cadono come pesci, perché la ripartizione in destra, sinistra e centro stimola il loro atteggiamento sportivo di tifosi. Non a caso la manifestazione comune dei tifosi sportivi e dei tifosi politici è il carosello rumoroso delle automobili la sera della vittoria (calcistica e/o elettorale).
Il sistema capitalistico odierno (assoluto, totalitario, speculativo e senza classi, ipermercantile e neofeudale, eccetera) non si riproduce affatto “a destra”, come cre-dono i tifosi. Esso si riproduce a destra in economia, al centro in politica ed a sinistra nella cultura. Più analiticamente, esso si riproduce sulla base della sovranità assoluta dell’economia (capitalistica e neoliberale), della necessaria mediazione politica fra interessi distinti, e della liberalizzazione individualistica del costume promossa dalla cosiddetta “cultura di sinistra”, oggi assolutamente egemone nei due settori ideolo-gici strategici del circo mediatico e del clero universitario.
Ma vediamo meglio.
28. Ho già rilevato in precedenza (ma non ci si insiste sopra mai abbastanza) che la “sinistra” si è costituita più di un secolo fa in Europa sulla base di una fragile al-leanza fra la critica economico-sociale alle ingiustizie distributive del capitalismo e la critica storico-culturale all’ipocrisia dei costumi della borghesia. Il presupposto era ovviamente quello dell’identità fra borghesia e capitalismo, per cui si pensava che criticando l’una si sarebbe anche automaticamente criticato l’altro, e viceversa.
Questa fragile alleanza durò in Europa grosso modo un secolo, diciamo 1870-1968. Essa è finita con la svolta individualistico-antiautoritaria del corpaccione accademi-co degli intellettuali di sinistra, passati in massa (le eccezioni si contano sulla punta delle dita) da Hegel a Foucault, e cioè da una considerazione logico-dialettica della storia universale ad un insieme di idiozie sulla pervasività dispersa del potere e della biopolitica, con la conseguenza di non poter più distinguere fra maestri elementari e carcerieri, entrambi in vario modo “biopolitici”.
La concezione postmoderna della storia universale, il relativismo, il nichilismo e l’ossessione biopolitica, insieme con l’interiorizzazione per l’inespiabile complesso di colpa per aver potuto in passato aderire ad una mostruosità totalitaria come il po-vero comunismo storico novecentesco (1917-1991) caratterizza l’insieme dell’orribile ceto intellettuale di oggi. Esso è per ora inguaribile ed incorreggibile, ed è possibile puntare soltanto sulla sua estinzione per ragioni biologiche, come è avvenuto per i brontosauri ed i tirannosauri. Questo ceto fa da rompighiaccio culturale per il supe-ramento integrale dei residui dialettici borghesi, dalla famiglia monogamica alla so-vranità monetaria dello stato nazionale fino ai diritti dei popoli. Esso non conosce che individui. In teoria, vuole l’emancipazione degli individui da ogni residuo legame religioso, familiare e nazionale,e si tratta appunto dello stesso identico programma del capitalismo speculativo senza classi, che mira ad ottenere uno stato di emancipa-zione da tutti i precedenti legami, all’infuori del solo ed unico legame mercatistico. Chi è a conoscenza del concetto di eterogenesi dei fini (Vico), di epoca della com-piuta peccaminosità (Fichte), e di rovesciamento dell’ascetismo della morale in regno animale dello spirito (Hegel), eccetera, non si stupirà affatto, ed anzi comprenderà facilmente il concetto per cui l’unità dialettica degli opposti si specifica nel fatto che gli (apparenti) contrari si rovesciano l’uno nell’altro. Ma questo, appunto, è il pensie-ro dialettico moderno, e non è certo un caso che esso non sia di moda fra i pagliacci postmoderni del clero universitario.
29. Vi è oggi una interessante contraddizione fra il pensiero filosofico del teologo tedesco Joseph Ratzinger e la prassi effettiva del papa cattolico Benedetto XVI che può servire da introduzione alla questione dialettica che ci preme qui mettere in evi-denza.
Il teologo tedesco Ratzinger sviluppa una concezione filosofica della storia con-temporanea che mi sembra estremamente intelligente, anche prescindendo comple-tamente dalla accettazione fideistica della cosiddetta “esistenza di Dio”, concepito in modo teistico-creazionistico (il che non è il mio caso, essendo io invece panteistico-spinoziano). Ratzinger nota correttamente che la apparente dittatura del razionali-smo illuministico, divinizzato e sostituito alla precedente teologia creazionistica, non porta affatto ad un beato stato di scienza laica e di progresso civile, ma si evolve nella direzione di una dittatura del relativismo, il cui fondamento metafisico non può es-sere che il nichilismo realizzato. Si tratta di una diagnosi molto simile a quella di altri critici dell’illuminismo davanti a cui in genere si prosternano reverenti i pagliacci universitari (ad esempio Adorno, ma anche Benjamin e Foucault), che è anzi in genere migliore della loro, perché permette di giudicare l’insieme della vita quotidiana contemporanea. Mi rendo conto di dire una cosa ad un tempo ridicola e scandalosa, ma l’interpretazione filosofica dell’epoca moderna fatta dal teologo tedesco Ratzinger del tutto complementare, e non solo compatibile, con l’analisi marxiana da me fatta del passaggio, all’interno del modo di produzione capitalistico, da una fase astratta (il razionalismo illuministico divinizzato, preludio alla divinizzazione monoteistica dello scambio economico capitalistico) ad una fase dialettica (lo scontro largamente ideologico fra marxismo positivistico e liberalismo individualistico borghese) fino alla presente fase speculativa. Il relativismo, infatti, significa che tutto è ormai rela-tivo al solo potere d’acquisto dell’individuo consumatore in pieno disincanto ed in pieno politeismo dei valori (Max Weber), con la sola provvisoria eccezione della pe-dopornografia e dell’esaltazione di Hitler. Ma questo relativismo ha come fondamen-to il nichilismo, perché soltanto una metafisica del Nulla può fare da fondamento al semplice scorrimento mercatistico della merce capitalistica. Dobbiamo proprio dirlo, anche se suona paradossale (ma tutte le cose intelligenti sono sempre paradossali): il teologo tedesco Ratzinger è uno dei pochissimi allievi creativi di Marx oggi.
Il discorso è diverso per il papa Benedetto XVI. Egli deve predicare, vestito di bian-co, contro il nichilismo ed il relativismo e nello stesso tempo amministrare l’immenso baraccone organizzativo della chiesa cattolica romana, un baraccone organizzativo occidentalistico, schierato con il capitalismo imperiale USA, impegnato (seppure in modo soft) nella lotta di civiltà contro l’Islam, e pieno fino a scoppiare di corrotti ban-chieri speculatori. Il fondamento economico-sociale cui si appoggia Benedetto XVI è quindi il fattore principale di produzione del relativismo e del nichilismo, lo stesso contro cui tuona il filosofo tedesco Ratzinger.
La mia conclusione provvisoria è che il testo di riferimento di questa schizofrenia non è più il Nuovo Testamento, ma l’operetta di Stevenson chiamata il dottor Jekill e mister Hyde.
30. Una simile società deve prima di tutto distruggere la scuola come luogo di edu-cazione e sostituirla con una scuola come semplice luogo di socializzazione subalterna e di formazione professionale. Se non si capisce questo fatto strutturale si conti-nuerà nelle geremiadi impotenti sugli studenti che non studiano più, sulla mancanza di disciplina, sul bullismo giovanile, e su altre idiozie secondarie di questo tipo.
In realtà, il pesce puzza dalla testa, e non dalla coda. E la testa è una oligarchia che non è più interessata alla trasmissione dei valori classici tardo-signorili e proto-borghesi, ma è interessata unicamente alla produzione di massa per consumatori decerebrati. La guardia plebea cui è stata delegata questa mostruosa trasformazione, manco a dirlo, è stata proprio la “sinistra scolastica”, un’Armata Brancaleone de-menziale di sindacalisti semianalfabeti, pedagogisti pazzi, psicologi invasivi e virago della CGIL Scuola italiana.
31. In una situazione di provvisorio “congelamento” della capacità di resistenza della classe operaia, salariata e proletaria la “resistenza” contro la nuova società della mercantilizzazione individualistica della vita sociale comunitaria è passata a forze nazionali, patriottiche e religiose del Fu Terzo Mondo. Questo può piacere o no, ma per ora è un fatto storico incontrovertibile.
E’ normale che il sistema chiami questa resistenza “violenza” e soprattutto “ter-rorismo”, cui opporre soltanto un pacifismo impotente e testimoniale basato su riti pecoreschi di adolescenti belanti accompagnati ai margini dei cortei da invasati in passamontagna che spaccano vetrine ampiamente assicurate. Questi riti tragicomici vengono chiamati “pacifismo”, cui si oppone invece il cattivo “terrorismo”. Del re-sto, ad organizzare le cosiddette “rivoluzioni colorate” (Ucraina, Georgia, Iran, ecce-tera) sono appunto fondazioni pacifiste imperiali USA.
Se ne rendono conto i pacifisti manipolati delle varie Tavole della Pace, in cui si inneggia congiuntamente alla non-violenza ed ai bombardamenti umanitari contro gli Stati-Canaglia? La stupidità è un fattore inevitabile come la malattia e la morte. In prima approssimazione, il vertice è composto da canaglie superpagate, e la base di cretini incurabili. Che dire? Viva la resistenza dei popoli!
32. Il discorso sarebbe appena iniziato, ma è bene rimandarlo ad altra occasione. Limitiamoci per ora a considerarlo una integrazione metodologica e culturale ad una nuova proposta sulle classi oggi. La strada è ancora lunga, ed è appena iniziata. Ci sarà gloria per tutti.