L’holodomor

A cura di Eros R.F., sintetizzando un articolo (pdf) de La Città Futura ben documentato, e

Sebbene la tesi genocidaria è smentita essa serve a sviare l’attenzione degli ucraini dall’odierno reale kholodomor, vale a dire la morte da freddo per le liberalizzazioni varate dal governo filo-americano.

Sintesi

Il presente dossier, diviso in quattro parti, si propone di fornire al lettore la visione d’insieme dell’attuale dibattito storiografico sul tema della carestia ucraina del 1933 con particolare riferimento al contesto dei genocide studies (studi sui genocidi). Questi eventi, che in Ucraina portano il nome di Holodomor – letteralmente “uccisione per fame” – sono particolarmente sensibili per diverse ragioni. Tra questi figura sicuramente l’elevata mortalità che hanno fatto registrare; ma non solo. Ancor più rilevante è l’uso strumentale che ne è stato fatto in seguito alla caduta dell’URSS nel tentativo di farne un topos della mortificata identità nazionale ucraina. Specificatamente, si darà risalto ai risultati delle ricerche d’archivio più recenti ed all’analisi del contesto storico-politico dell’Unione Sovietica staliniana. L’analisi condotta smentisce la tesi genocidaria ma non basta a provare oltre ogni ragionevole dubbio che le politiche del governo sovietico non abbiano comunque aggravato la carestia nonostante questa fosse prevedibile. Questa è, ad esempio, la tesi di Tauger (2001) e Cheng (2012) che individuano un’aggravante della carestia nell’eccesiva celerità con cui si volle attuare la collettivizzazione in Ucraina.

1. Introduzione

Sebbene la storia sovietica del primo Novecento sia segnata da diverse carestie gli storici hanno prestato particolare attenzione a quella del 1932/33 e, soprattutto, ai suoi effetti sulla popolazione dell’allora Repubblica Socialista Sovietica Ucraina. Ciò è dovuto, in parte, anche all’ordine di grandezza delle prime stime sul bilancio delle vittime. Tra quelle avanzate da studiosi e funzionari governativi ve ne furono alcune che arrivavano fino ai 12 milioni di morti (Rosefielde, 1983) su una popolazione di circa 31,5 milioni di abitanti. Ad un bilancio sovrastimato (7–10 milioni) faceva ancora riferimento anche la dichiarazione resa dalla delegazione ucraina al Segretario Generale dell’ONU nel 2003 in materia (Sergeyev 2013). Non per nulla, una nuova dichiarazione, sottoscritta da meno di 40 Stati, non cita alcuna cifra (Yelchenko, 2018). Alla fine, secondo le conclusioni della Corte d’Appello di Kiev, le conseguenze demografiche della carestia ammonterebbero a 3,9 milioni di morte dirette ed un deficit di nascite di 6,1 milioni di unità (LB.ua 2010).

Nei prossimi paragrafi, dopo una breve presentazione dei due filoni storiografici principali, oltre ad una succinta descrizione del contesto storico e politico dell’Ucraina tra le due guerre, si proverà a riassumere le argomentazioni delle due opposte scuole di pensiero. Nel far ciò, si darà risalto alle debolezze ed inconsistenze della teoria genocidaria e si evidenzierà come, seppur entro certi limiti, le spiegazioni alternative sembrino essere più vicine alla realtà. In effetti, oggi è più che mai necessario reagire contro l’imperitura tendenza dell’intellighenzia occidentale mainstream ad assimilare l’URSS al Terzo Reich come se la prima fosse stata “né migliore né peggiore” (Furet, 1995) del secondo.

Sia con riferimento allo specifico caso della carestia ucraina sia più in generale poiché identificando tutta la sinistra socialista cogli “eccessi dello stalinismo” le élite mirano a screditare ed emarginare tutte le forze politiche che potrebbero “minacciare il primato della proprietà privata e del libero mercato” (Ghodsee 20014, 117).

1.1. La storiografia “ortodossa”

Questo evento è definito senza riserve da uno dei maggiori esperti di genocidi, il francese Bernard Brunetau, da una vasta storiografia e da diversi Stati come “carestia-genocidio” (Bruneteau [2004] 2006, Kulchytsky 2008, Lemkin and Irvin-Erickson 2014). Ciò viene affermando molto spesso tacendo sulle precarie condizioni climatiche dell’epoca, ed enfatizzando (anche esagerando) il ruolo di requisizioni forzate e altre misure coercitive. Gli storici di questa corrente sostengono, spesso ma non sempre, anche la cosiddetta “tesi del doppio genocidio”, ossia postulano l’equivalenza morale tra violenza nazista (con vittime definite a partire da criteri razziali) e la repressione classista negli Stati socialisti.

La diffusione di tale teoria ha subito un’accelerazione all’inizio della crisi finanziaria globale del 2008, durante la quale in Europa si sono moltiplicate le commemorazioni delle vittime del socialismo reale. Per di più, il processo di istituzionalizzazione della memoria gli eventi del 1932/33 è stato largamente strumentalizzato da una parte dell’élite politica ucraina. Ciò vale soprattutto per certi leader nazionalisti, che l’hanno resa parte integrante dello sforzo di costruzione di un’identità nazionale a lungo sbiadita. Per di più, la sola idea che un evento catastrofico di quella portata possa essere imputata all’attività di un governo trova un buon numero di storici poco convinti.

1.2. Visioni alternative (la storiografia eterodossa)

Si consideri poi che per ritenere “provata” la tesi genocidaria bisognerebbe dimostrare sia l’intenzionalità (‘Stalin causò la carestia per uccidere milioni di persone?’) sia il “fattore ucraino” (‘fu la carestia motivata dall’odio per gli Ucraini?’), due caratteristiche che si vedrà essere state estranee agli eventi del 1932–’33. (Tauger 2006).

Difatti, dando risalto al contesto storico-politico ed ai fattori economici, la storiografia “eterodossa” ricerca altrove le vere cause della carestia ascrivendola alla scarsa produttività delle fattorie collettive o, senza ulteriori specificazioni, ai pessimi raccolti degli anni della collettivizzazione. Difatti, la produttività delle coltivazioni cerealicole in Europa orientale e nella Russia centrale è stata caratterizzata, sin da quando sono iniziate le rilevazioni statistiche, da precisi cicli congiunturali (rispettivamente di 5/6 anni e 4 anni). In virtù di ciò, ogni decade ha avuto la sua carestia od almeno una fase di grave inedia (Ajrapetov, 2017). Al contempo, altri sottolineano che a partire dal 1929 “la collettivizzazione fu perseguita senza remore” e che tra le cause della fame, vanno annoverate pure le uccisioni degli animali – da lavoro e da carne – volte ad evitarne la collettivizzazione (Cheng 2012).

Nel 1927 infatti l’idea del governo sovietico di collettivizzare le proprietà terriere fu proposta ai contadini, su base opzionale. Le aree rurali furono incoraggiate ad adottare il metodo dei kolkhoz. Per queste nuove aziende agricole collettive furono messi a disposizione articoli come i trattori. I contadini furono incoraggiati ad adattarsi alla nuova idea e a sfruttare l’opportunità. Si sperava che i contadini avrebbero accolto l’idea e inviato più cibo alle città.
Tra il 1927 e il 1929 non furono creati molti kolchoz. L’idea di Stalin fu a tutti gli effetti ignorata dai contadini. Questo rallentò la crescita delle città e causò un problema di approvvigionamento per la nuova forza lavoro industriale. Nel 1930, il giornale Pravda annunciò un cambiamento di politica. La collettivizzazione non sarebbe più stata facoltativa. Tutte le aziende agricole avrebbero consegnato la loro terra, i loro raccolti e il loro bestiame.

I contadini avevano diversi livelli di “classe”. Alcuni avevano uno stile di vita ragionevolmente buono nel sistema che Stalin voleva sostituire. I kulaki odiavano l’idea di Stalin. Li avrebbe privati della vita a cui erano abituati. Avrebbero perso i benefici di cui avevano goduto essendo i contadini più agiati. Da un lato c’erano i kulaki arrabbiati che non volevano il cambiamento. Dall’altro, Stalin che aveva ragioni ideologiche per cambiare il funzionamento dell’agricoltura e un’acuta necessità oggettiva di riformare il settore.
Le ragioni erano molteplici:
1) Con la crescita delle città, l’aumento del numero di abitanti significava che la produzione alimentare doveva diventare più efficiente.
2) Per acquistare nuove tecnologie e prodotti chimici, Stalin aveva bisogno di valuta estera. L’URSS poteva ottenerla dalla vendita del grano.
3) L’agricoltura era obsoleta e inefficiente. Anche dopo le riforme della NEP, non riusciva a soddisfare le esigenze del popolo sovietico.
4) Dal punto di vista ideologico, i kulaki erano capitalisti. Ostacolavano la realizzazione di un vero Stato socialista.

Stalin modificò le modalità di attuazione della collettivizzazione. Ai contadini sarebbe stato permesso di tenere per sé un piccolo appezzamento di terra. Tuttavia, questa politica ebbe vita breve. Nel 1931 il programma di collettivizzazione fu applicato con la forza. Circa due terzi delle aziende agricole furono modificate. Il terzo che resisteva fu costretto a farlo. Nelle aree di forte resistenza all’idea, la violenza era comune. I kulaki furono cacciati dalla terra. Molti furono inviati nei gulag o costretti a migrare in Siberia per lavorare nei cantieri di legname.

Quel “terzo che resisteva”, come forma di protesta, per sabotare il processo di collettivizzazione, abbatté milioni di bovini e suini. Le stime sulla quantità variano tra il 20% e il 35% di tutto il bestiame, ucciso deliberatamente. Il Paese faticava a sfamarsi. Secondo la “tesi eterodossa” questo avvenimento in particolare portò come risultato la carestia.
I kulaki avevano danneggiato enormi aree di terra coltivabile. La carestia che seguì nel 1932 fu catastrofica. In Ucraina, 5 milioni di persone morirono di fame. I kulaki che non erano ancora emigrati furono costretti a farlo o, se opponevano ancora resistenza alla collettivizzazione, furono giustiziati. Secondo le cifre di certi storici occidentali, nel 1934 sono morti circa 7 milioni di kulaki.
Il processo continuò per tutti gli anni ’30. Alla fine del decennio il 99% delle aziende agricole era costituito da kolkhoz.

Inoltre, sebbene le fattorie collettive fossero dotate di trattori e mietitrebbie va considerato anche lo stato di manutenzione di tali macchinari agricoli, la maggior parte dei quali era inutilizzabile. Si registrarono, infatti, situazioni paradossali come quella di alcune fattorie collettive nei pressi di Odessa ove di “30 trattori, 27 o 29 sono inutilizzabili” (Rot [1929] 2009). In questo senso, le vittime del 1932/33 sarebbero state un effetto collaterale e non necessariamente voluto della dekulakizzazione.

2. L’Ucraina nel periodo tra le due guerre

Nel contesto della Grande Guerra e degli sconvolgimenti rivoluzionari che seguirono, il movimento nazionalista ucraino riemerse sebbene con significative influenze comuniste e socialiste. D’altronde, la prima guerra mondiale distrusse entrambi gli imperi che avanzavano pretese territoriali sull’Ucraina sicché diversi “Stati” ucraini sorsero e caddero nel giro di pochi anni o mesi. Tra questi le due entità più importanti furono: la Repubblica popolare ucraina (con capitale Kiev) e la Repubblica popolare ucraina dei Soviet (de facto istituita a Charkiv) e la successiva Repubblica Sovietica. Le forze armate delle due repubbliche “ucraine” combatterono costantemente l’una con l’altra in un sanguinoso conflitto civile che ha visto la partecipazione anche delle Armate Bianche reazionarie, della Polonia, e di forze “minori” (e.g., le Armate Verdi e l’Esercito Rivoluzionario Insurrezionale dell’Ucraina).

Per la sua complessità gli storici considerano la guerra civile ucraina (1917–1921) un fenomeno bellico peculiare facente parte della più ampia Guerra civile russa del 1917–1922 (Reshetar, 1972). Senza scendere nei particolari va ricordato sin da subito che proprio l’elevata frammentazione istituzionale fu un fattore determinante per la storia successiva dell’intero Est europeo. Difatti, oltre a rendere la regione oggetto di preda per l’imperialismo (soprattutto tedesco e polacco, ma anche anglo-francese) tale circostanza finì col prolungare lo stato guerra per diversi anni (in certe zone sino al ’23). Questo trascinarsi delle manovre belliche del 1914–’18 nella guisa di guerra civile è considerata dallo storico Omer Bartov una delle cause della “brutalizzazione” dell’Est europeo nel periodo interbellico (Bartov, 2001).

2.1. Le rivoluzioni russe in Ucraina

Alcuni mesi dopo la Rivoluzione di Febbraio e più precisamente nel giugno 1917, la Central’na Rada (il “Consiglio Centrale”, l’assemblea rappresentativa di tendenza socialista rivoluzionaria dell’Ucraina costituita sul modello del parlamento russo post-rivoluzionario) dichiarò il territorio sotto il suo controllo autonomo ma non indipendente dalla Repubblica russa. Il primo ministro di quest’ultima, Alexander Fëdorovič Kerenskij, accettò tale dichiarazione nominando il Segretariato della Rada rappresentante del governo provvisorio russo in Ucraina. Dopo un breve dissenso la Central’na Rada accettò la cosiddetta Kerenskij Instruktsija [it. “editto Kerenskij”] sottomettendosi alla Repubblica russa.

A fine novembre 1917, dopo la Rivoluzione d’Ottobre, il ramo ucraino del partito bolscevico fomentò una rivolta a Kiev per instaurare il potere sovietico nella città. All’inizio la Central’na Rada sembrò appoggiare i bolscevichi ma anziché riconoscere il Soviet di Pietrogrado la Rada si autoproclamò supremo organo di governo del territorio ucraino. La Central’na Rada bollò poi tutte le attività rivoluzionarie (inclusa la Rivoluzione d’Ottobre) come atti di guerra civile sicché i bolscevichi compresero che la Rada non aveva intenzione di sostenere la Rivoluzione. Riorganizzatisi in un Soviet pan-Ucraino i rivoluzionari tentarono di prendere il potere (dicembre 1917) ma fallirono a causa della loro relativa impopolarità nella capitale. I bolscevichi ucraini ripiegarono allora a Charkiv, da dove dichiararono illegittimo il governo della Repubblica popolare ucraina e proclamarono la Repubblica sovietica del popolo ucraino. Nel frattempo l’Armata rossa entrò in Ucraina a sostegno del governo sovietico locale.

All’inizio del 1918 i rapporti tra i membri della Central’na Rada si deteriorarono ed una serie di repubbliche regionali sovietiche si resero indipendenti da Kiev riconoscendo il Soviet di Pietrogrado: la Repubblica Sovietica di Donetsk-Krivoi Rog in Ucraina orientale, voluta dallo stesso Lenin (Accademia Sovietica delle Scienze, 1968) e quella di Odessa nell’Ucraina meridionale mai riconosciuta. La Central’na Rada reagì rompendo i legami con la Russia bolscevica e proclamando uno stato ucraino indipendente, ma meno di un mese dopo l’Armata Rossa conquistò Kiev (febbraio 1918).

2.2. Brest-Litovsk e l’imperialismo tedesco

Avendo perso molto territorio, la Rada fu costretta a cercare aiuti all’estero così ad inizio di febbraio 1918 firmò a Brest-Litovsk una pace separata per ottenere l’aiuto militare dagli imperi tedesco e austro-ungarico. Dopo il trattato, l’Ucraina divenne un de facto un protettorato dell’Impero tedesco, che temendo di perdere la guerra cercò di accelerare il processo di sfruttamento agro-alimentare dell’Ucraina decidendo di imporre la propria amministrazione diretta della regione. Ciò, ovviamente, non era possibile sotto le leggi del governo ucraino, ma dopo aver sconfitto i bolscevichi la Central’na Rada fu sciolta e i suoi membri furono arrestati. La Rada fu sostituita dal governo conservatore di Hetman Pavlo Skoropadskij (Etmanato) mentre la Repubblica popolare ucraina prese il nome di “Stato ucraino”. Skoropadskij, un ex ufficiale dell’Impero russo, istituì un regime che favoriva i grandi proprietari terrieri e concentrava il potere ai vertici; sostenne, con l’aiuto di truppe tedesche, la restituzione ai ricchi proprietari terrieri delle terre precedentemente nazionalizzate. Ciò provocò disordini, l’ascesa di un movimento di guerriglia contadina e una serie di rivolte armate popolari su larga scala. Tuttavia, i tedeschi credevano che così facendo sarebbero riusciti a fermare le riforme sociali in atto e, quindi, accelerare il processo di trasferimento di forniture alimentari verso la Germania e l’Austria-Ungheria.

2.3. Dopo la Grande Guerra

A causa della sconfitta della Germania e dell’Austria-Ungheria nella prima guerra mondiale, l’Etmanato perse il suo principale sponsor straniero e dovette riorganizzarsi sotto le spoglie della reazione filo-zarista ed abbandonando ogni pretesa di sovranità. Nel frattempo (novembre 1918), i bolscevichi ucraini annunciarono un nuovo governo rivoluzionario: il Direttorio. Nel corso del 1919, l’Ucraina precipitò al caos creato dagli scontri tra le forze armate dell’Etmanato filo-tedesco (prima) e filo-polacco (poi), dei bianchi, delle potenze straniere (sia dell’Intesa sia della Polonia), e i bolscevichi e gli anarchici gli come quella di Nestor Ivanovič Machno (1889–1934). L’offensiva coordinata tra l’Etmanato e l’esercito polacco non riuscì a invertire un rapporto di forze che, con l’esaurirsi della guerra civile russa andava oramai in favore delle repubbliche sovietiche.

Alla fine, nel marzo 1921, la RSFS Russa dovette venire a patti con le aggressive potenze stranieri interessate al territorio ucraino, cosa che fece con la pace di Riga. L’accordo sancì la ripartizione dell’Ucraina tra le potenze regionali confinanti in sfregio ai preesistenti accordi tra russi, inglesi e francesi e senza tener conto della reale composizione etno-linguistica della regione. In particolare: (i) la Bucovina e la Moldavia furono annesse alla Romania; (ii) la Transcarpazia fu unita alla neonata Cecoslovacchia; (iii) la Polonia incorporò la Galizia e la Volinia occidentale, insieme a piccole aree adiacenti nel nord-ovest; (iv) il territorio rimanente ad est del confine polacco costituì l’Ucraina sovietica.

[Figura 1 Regione corrispondente all’Ucraina contemporanea dopo la pace di Riga (1920)]

2.4. Il Partito Comunista nell’Ucraina sovietica

Ancora durante la guerra civile ucraina, sotto la pressione di Mosca, nel dicembre 1917 si tenne il primo Congresso ucraino dei Soviet che aveva formato un governo sovietico per l’Ucraina; un secondo Congresso, nel marzo 1918, dichiarò l’Ucraina sovietica indipendente; ed un terzo, nel marzo 1919, adottò la prima costituzione dell’Ucraina sovietica completando la riorganizzazione dei territori sotto il controllo bolscevico nella Repubblica Socialista Sovietica (RSS) Ucraina.

I tre Congressi, tuttavia, rappresentarono poco più che una contro-mossa tattica alla minaccia tangibile rappresentata dal rinvigorito nazionalismo ucraino e dalle sue numerose connessioni con le élite tedesche e polacche. Sin dal suo congresso di fondazione nel luglio del 1918, infatti, il Partito Comunista (bolscevico) d’Ucraina o “PC(b)U”, si autodefinì parte integrante di un tutt’uno, ossia il PC russo. Di conseguenza, anche i suoi Congressi erano subordinati alle analoghe assemblee ed alle decisioni del Comitato Centrale (CC) del PCUS a dispetto degli sforzi di alcuni bolscevichi di mentalità nazionalista come Mykola Skrypnyk, che spingevano per dichiarare il PC(b)U autonomo. Ciò era impossibile anche perché lungi dall’essere subordinato a Mosca solo organizzativamente, la membership del PC(b)U era composta prevalentemente da individui non-ucraini.

Stando ai dati conservatisi sino ad oggi, al momento della sua fondazione su 5.000 iscritti meno del 7% erano Ucraini (Hajda, et al. 2019). La componente ucraina nel PC(b)U fu rafforzata nel 1920 con l’adesione dei Borotbisti, membri del Partito Comunista Ucraino “Indipendente” e non bolscevico formatosi nel 1919, fermo restando il fatto che, ancora verso la fine del 1920, gli ucraini costituivano meno del 20% della membership del PC(b)U (Lenin [1920] 1968).

Con il consolidamento del dominio bolscevico, l’Ucraina sovietica cedette progressivamente alla Russia la sovranità nelle relazioni politiche e commerciali con l’estero. Il 30 dicembre 1922, al momento della proclamazione dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (URSS) La RSSU appariva tra le entità fondatrici assieme a Russia, Bielorussia e Repubblica Socialista Federale Sovietica (RSFS) transcaucasica. La prima costituzione per la nuova federazione multinazionale, che sostituì tutte le Costituzioni nazionali preesistenti, fu ratificata nel gennaio 1924. A fronte del diritto formale alla secessione riconosciuto alle Repubbliche costituenti, queste accettarono di limitare la propria giurisdizione agli affari interni. La conduzione dei rapporti politici, militari, commerciali con l’estero nonché la gestione delle infrastrutture di comunicazioni venne affidata agli organi del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, a Mosca.

Insomma, dopo la sconfitta degli oppositori dei bolscevichi, il potere d’imperio a tutti i livelli del governo, il comando dell’esercito e della polizia segreta, fu esercitato dai bolscevichi e dal loro apparato. Lo stesso PCUS, però, dovette limitare ogni concessione alle Repubbliche verso una maggiore autonomia nell’ambito di un assetto federale preservando la natura centralizzato dello Stato sovietico.

3. La tesi “genocidaria” degli storici ortodossi

La linea di fondo della teoria della “carestia-genocidio” porta a ritenere la “surmortalité” registrata in Ucraina nel 1932–’33 (Bruneteau [2004] 2006) – vale a dire l’eccesso di mortalità data dalla differenza tra la mortalità registrata e quella prevista – come l’effetto di un esplicito progetto di Stalin. Detto altrimenti, i circa tre milioni di morti causate dalla carestia sarebbero stati voluti dall’apparato del Partito Comunista dell’Unione Sovietica (PCUS) e, in particolar modo, dal suo Segretario Generale per epurare l’Ucraina da quelli che la storiografia mainstream definisce (non è ben chiaro in base a quali criteri) “etnici ucraini” (si vedano, ad es., Bruneteau [2004] 2006 e Hajda, et al. 2019).

3.1. Origine e diffusione

Tale interpretazione comincia a consolidarsi già nel ventennio che va dal 1932 agli anni ’50 attraverso due principali vettori informativi.

Fonti italo-tedesche

Da un lato, e sin da subito, i rapporti dei consoli tedeschi ed italiani del 1933–’34 in cui si parla di “carestia ucraina”. La scarsa attendibilità di tali resoconti è confermata dal fatto che nella contemporanea corrispondenza diplomatica francese si parla di “grave ‘scarsità’, soprattutto durante il periodo di soudure (tra i due raccolti) non specificamente ucraina” (Lacroix-Riz, 2009).

Di fatto, bisogna assimilare suddetti rapporti al resto della propaganda diffusa da alcune legazioni straniere con sede a Leopoli in tutta la regione e destinata a ringalluzzire le forze pro-secessione. Stando a studi successivi le potenze maggiormente coinvolte in questa attività furono Germania, Polonia, Italia e Santa Sede (Ibid.).

Testimonianze degli émigré

A partire dalla seconda guerra mondiale il secondo vettore informativo è costituito dalle prime testimonianze degli ucraini fuggiti dall’URSS e definiti dalla storica Francese Lacroix-Riz degli antisemiti ed antibolscevici, collaborazionisti di primo piano sotto l’occupazione tedesca; emigrati negli Stati Uniti, in Canada o in Germania occidentale quando la Wehrmacht fu cacciata dall’Ucraina o dopo il maggio 1945 (Ibid.).

Di fatto, queste ultime voci furono bollate da molti come mistificazioni anti-sovietiche e non scandalizzarono più di tanto l’opinione pubblica. Un sensibile mutamento si ebbe, invece, dopo la dissoluzione dell’URSS (primo gennaio 1991) e la Rivoluzione arancione del 2004, in seguito alla quale la Repubblica Ucraina ha inoltrato all’ONU una bozza di risoluzione chiedendo che l’“Holodomor” fosse riconosciuta come genocidio ai sensi dell’apposita convenzione del 1951 (United Nations General Assembly 1951).

3.2. Indizi della “intenzionalità genocidaria”

Tra i fatti storici citati dai fautori della teoria genocidaria figurano una serie di provvedimenti mirati ad impedire ai contadini delle regioni sud-occidentali di lasciare le proprie terre natie (come l’istituzione del passaporto interno) e l’aumento delle requisizioni. Si tratterebbe, infatti, di circostanze più facilmente spiegabili con una intenzionalità genocidaria del governo sovietico che non seguendo alcuni dei ragionamenti di volta in volta proposti dagli storici eterodossi (che i genocidari chiamano “riduzionistici”).

Questa medesima intenzionalità trasparirebbe anche da una lunga lista di discorsi pubblici e conversazioni sia precedenti sia successivi alla carestia che sgombrerebbero il campo da ogni possibile fraintendimento. Ad esempio, negli scritti dello storico Michael Ellman è ricorrente una citazione di Stalin nella quale il vožd (“guida” o “capo”, termine semanticamente analogo a “Duce”, “Führer” o “Caudillo” utilizzato nella Russia sovietica per indicare il Segretario Generale del PCUS – Chlevnjuk, 2016) afferma che i bolscevichi avrebbero dovuto “rispondere ad alcuni kolchoz e qualche kolchoziano con un colpo da K.O.” (Ellman, 2006).

Altre volte si trovano riferimenti anche ad un breve scambio verbale, risalente a prima della carestia (inizio del novembre 1932) ed attribuita allo staliniano di ferro Lazar Moiseevič Kaganovič (1893–1991) dal čekista1 Genrich Samojlovič Ljuškov (1900–1945). Questi fu incaricato di scortare una delegazione del Politburo nel Caucaso settentrionale e ricorda d’aver sentito Kaganovič affermare: “se alcuni kolchoziani muoiono stanno pagando per i propri errori” (Kuromiya, 2006). Ljuškov ha scritto nelle sue memorie che dopo aver portato all’attenzione del Georgiano quanta fame i contadini patissero in Ucraina, si sia sentito rispondere: “Cosa? Se muoiono di fame, è colpa loro. Non c’è bisogno di salvare quelli che muoiono. Invece, ciò che deve essere fatto è prima di tutto assicurarsi che i kolchoziani lavorino duro e comprendano il potere del governo [bolscevico]. Se due o trecento persone sono lasciate morire, sarà d’insegnamento agli altri” (Ivi)

Ad ogni modo, Ljuškov pubblicò queste osservazioni nel 1939 durante l’esilio in Manciukuò dopo aver disertato a favore dei giapponesi, quindi vanno prese cum grano salis. Tuttavia, un tono simile permea anche le dichiarazioni dei massimi quadri ucraini di allora incluso il leader del PC locale Stanislav Vikent’evič Kosior (1889–1939). Questi nel marzo del 1933 sentenziò: “la fame non ha ancora insegnato il buon senso a molti kolchoziani” (Ibid.). Inoltre, indicazioni che la diffidenza di Mosca verso gli ucraini sia atavica si trovano anche nelle memorie di Nikita Sergeevič Chruščëv (1894–1971), che scrisse di quanto Kaganovič “amasse dire che ogni ucraino è un potenziale nazionalista” (Chruščëv 1970).

Sarebbe poi risolutivo, secondo alcuni, il fatto che dopo la carestia, nel corso del XVII Congresso del PCUS (1934), Stalin abbia posto i delegati di fronte all’interrogativo “quale è il pericolo maggiore: il nazionalismo grande-russo o il nazionalismo locale?” per far poi seguitare a mo’ di risposta: “solo molto recentemente, la deviazione nazionalista ucraina non rappresentava il pericolo principale. Ma quando la lotta contro di essa cessò e le fu permesso di crescere a tal punto che si collegò con gli interventisti, questa deviazione divenne tale” (Stalin 1955). Gli interventisti (emigrati anti-sovietici e potenze straniere) la cui collusione coi nazionalisti ucraini è fonte di preoccupazione ancora nel ‘34. In una lettera dell’11 agosto 1932 Stalin enfatizzava il fattore polacco: “Badate che Piłsudski [all’epoca dittatore della Polonia, NdA] non sta sognando ad occhi aperti, i suoi agenti in Ucraina sono molto più forti di quanto credino Redens [capo del NKVD in Ucraina, NdA] o Kosior [Segretario del PC Ucraino, NdA]. Tenete presente anche che in seno al Partito Comunista ucraino (500.000 membri) vi è un numero non piccolo (sì, non piccolo!) di elementi marci, i Petliuriti e, infine, gli agenti di Piłsudski” (Khlevnyuk, 2001).

Se considerate congiuntamente e nel contesto delle misure coercitive succitate, stando alla tesi genocidaria queste frasi lascerebbero pochi dubbi e se ne dovrebbe dedurre quanto basta per corroborare l’ipotesi che dietro i provvedimenti (non) presi dal potere sovietico durante la carestia si nasconderebbe l’intenzione di aggravare la situazione degli ucraini anziché alleviarne le sofferenze.

3.2. Il “peccato originale” degli Ucraini

Il motivo per cui Stalin avrebbe voluto infliggere una tale sorte agli abitanti dell’Ucraina è individuato dagli storici della teoria genocidaria nel contesto politico interno del periodo interbellico.

Reale significato della korenizatsija

Segnatamente, l’attenzione è rivolta ad una politica adottata al XII congresso del PCUS (1923) – con Lenin in vita sebbene non presente – e definita korenizatsija (lett. “mettere radici”). Spesso vi si fa riferimento come politica di “nativizzazione” oppure “indigenizzazione” per sottolineare il legame con il topos della strategia leniniana che postula la possibilità di ciò che Stalin definì un discorso pubblico “nazionale nella forma ma socialista nel contenuto” (Stalin 1968). Si tratta, in pratica, di permettere ai quadri comunisti di comunicare con le masse contadine e di trasmettere il messaggio sovietico nelle lingue vernacolari.

La korenizatsija in Ucraina

L’Ucraina fu la Repubblica Sovietica che più s’avvantaggio della svolta del 1923 per dare il via ad una rinascita culturale definita da alcuni storici “de-russificazione” od “ucrainizzazione” (Kuromiya, 2006). Inizialmente l’ucrainizzazione fu limitata nelle alle aree rurali, ove viveva il grosso della popolazione ucrainofona; ma negli anni ‘30 se ne avvertirono distintamente gli effetti anche nei centri urbani. Nel giro di pochi anni, gli ucrainofoni divennero la maggioranza degli operai in tutti i settori. Il successo fu tale e così rapido che già nel 1930 i giornali e università abbandonarono il russo, che divenne nettamente minoritario, in favore di un ucraino nel frattempo depurato dai russismi.


Distribuzione degli etnici russi in Ucraina stando al censimento del 1930. Elaborazione dati DemoscopWeekly 2016.

La Korenizatsijae la teoria genocidaria

Secondo questa teoria della “carestia-genocidio”, Stalin e gli altri massimi dirigenti del PCUS ritennero che la situazione fosse fuori controllo ed imputarono il fallimento del piano quinquennale ai dirigenti locali. I quadri del PC ucraino sarebbero stati accusati d’essere più inclini a proteggere i propri compatrioti che a servire gli interessi superiori dell’URSS, ciononostante sia universalmente riconosciuto essi fossero in massima parte russofoni (Hajda, et al. 2019). La conseguenza di tale diffidenza è stata, secondo la storiografia ortodossa, l’avvio di una massiccia campagna di de-nazionalizzazione volta a fare dell’Ucraina una repubblica sovietica modello. La connotazione sanguinaria di tale campagna volta sia all’eliminazione dei sabotatori sia alla “distruzione dell’identità etnica ucraina” (Bruneteau [2004] 2006) sarebbe stata preannunciata dalla chiusura dei confini della RSFSR con l’Ucraina e il Caucaso settentrionale. Questa decisione e gli altri provvedimenti che impedirono la fuga dei contadini permetterebbero, assieme agli indizi suesposti, di affermare che la carestia fu artificialmente alimentata. D’altronde secondo alcune fonti risulterebbe che nonostante la carestia nel 1933 l’URSS esportò 1,8 milioni di tonnellate di grano (Naimark 2010, 75).

4. Contro la tesi genocidaria degli storici eterodossi

La teoria del genocidio è spesso sostenuta da coloro che si concentrano sulla storia ucraina ed adottano uno story-telling che fa propria la prospettiva ucraina sugli eventi ignorando del tutto il fatto che la carestia ha mietuto vittime tra gli amici ed i nemici del regime senza distinzioni.

Di contro, quanti studiano la Grande Carestia dal punto di vista dell’URSS nel suo insieme adottano posizioni molto più sfumate. D’altronde, chiunque non sia accecato dal dogmatismo è in grado di riconoscere che Stalin abbia davvero sfruttato la carestia per fini politici traendone il massimo vantaggio possibile: eliminare chiunque fosse “sospettato di slealtà verso il governo sovietico” (Kuromiya 2006) e rimediare alla scarsa “convinzione psicologica” dei contadini circa i “vantaggi del lavoro collettivo sull’agricoltura individuale” attraverso la definitiva imposizione del sistema di produzione agricoltura collettivizzata (Kulʹchytsʹkyy, 2002). Nondimeno, la seconda scuola di pensiero nega che ciò equivalga alla dimostrazione dell’origine intenzionale della carestia intesa come mezzo per un perpetrare un genocidio etnico.

4.1. Le altre regioni colpite dalla carestia

Molti sovietologi, infatti, tendono a negare la specificità degli eventi ucraini notando come le carestie colpirono anche altre aree e, sebbene l’Ucraina abbia sofferto più della Russia, a leggere i numeri con attenzione emerge chiaramente come “il Kazakistan fu colpito ancor più duramente dell’Ucraina” (Kuromiya, 2006).

RegioneCollettivizzazioniPopolazioneSurmortalité ‘32/’33
Ucraina61,0%31,6 mln3,9 mln12,34%
Caucaso Settentrionale81,2%9,30> 1 mln14,01%
Basso Volga78,8%5,802,2 mln16,54%
Alto Volga71,3%7,50
Terre nere49,6%11,7< 1 mln7,69%

Tabella 1 Distribuzione geografica delle vittime della carestia del 1932/’33 con ivi indicati la percentuale di fondi agricoli collettivizzati sul totale (Dati tratti da: Naimark 2010, p. 131).

A ciò si aggiunga che la supposizione per cui durante la korenizatsija l’Ucraina era peculiarmente ritrosa a seguire gli ordini di Mosca è storicamente infondata. Lo dimostra un rapporto dell’OGPU datato agosto 1932 ove si afferma che il clima politicamente “più teso” in assoluto si registra nelle regioni del Caucaso settentrionale e del Kazakistan – anch’esse coinvolte della carestia – nelle quali è più massiccia l “attività antisovietica” (Danilov, Manning and Viola 2001).

Sulla scorta di questa linea di pensiero alcuni storici ucraini hanno sottolineato come fu soltanto verso la fine del 1932, che Mosca iniziò attivamente a varare provvedimenti e diramare ordini nel senso della totale inversione dell’ucrainizzazione, ossia a carestia già in corso (Vasil’iev and Shapoval 2001).


Figura 3 Fonte: (Markoff 1933, 14–15)

4.2. Gli interventi a favore dell’Ucraina affamata

Evidentemente, la mancanza di prove dirette dell’intenzione di Stalin di uccidere milioni di ucraini ricorrendo ad una carestia non è sufficiente. Tuttavia, seppure il vožd avesse voluto davvero perseguire questo fine vi sono prove circostanziali a sufficienza per ritenere improbabile il ricorso a tali mezzi. In primo luogo, come sottolinea lo stesso Ellman (Ellman 2007) al di là della retorica bellicosa Stalin cercò di alleviare in parte i patimenti legati alla fame. Nel 1932 e nel 1933, il Gosplan (l’agenzia responsabile della pianificazione economica nell’Unione Sovietica) decise di ridurre le quote di cereali la cui fornitura spettava a Ucraina, Kazakistan, Crimea, Caucaso settentrionale, Basso Volga, Urali, Terre Nere e Siberia orientale in ben nove occasioni.

Inoltre, alcuni storici ucraini hanno ritrovato documenti che attestano l’offerta da parte del governo di Mosca di aiuti alimentari e rifornimenti di cereali a queste regioni, (Danilov, Manning and Viola 2001, Vasil’iev and Shapoval 2001) cui va aggiunto l’importazione clandestina di grano distribuito agli affamati (Khlevnyuk, et al. 2001). Lo stesso discorso di Stalin al XVII Congresso del PCUS può essere interpretato in vari modi e non tutti necessariamente evidenziano le potenzialità di voler impartire una lezione agli ucraini come gruppo “etnico”. Il sol fatto che Stalin sentisse il bisogno di citare il nesso tra nazionalismo ucraino e “interventisti” (émigré anti-sovietici e potenze straniere) suggerisce che il vožd non ritenesse il nazionalismo ucraino costituisse all’epoca una grave minaccia di per sé. Tale inoffensività venne meno quando sembrò che i nazionalisti avessero intessuto una fitta rete di contatti con gli “interventisti”, fatto che trasformò il primo in una seria minaccia politica agli occhi di Mosca.

4.3. Il divario città-campagna

D’altro canto, misure estreme come il blocco economico, gli arresti in massa dei dirigenti comunisti locali e le deportazioni di contadini furono de facto adottate solo in Ucraina e nel Caucaso settentrionale con un apposito ordine del CC del PCUS ucraino datato novembre 1932 (Pyrih 1990) Eppure, è arduo convincersi che questi ordini fossero diretti specificamente contro gli ucraini. Di fatto, ambo i lati del confine vivevano ucraini e russi e le guardie di frontiera non potevano distinguere i due gruppi dal momento che i contadini non avevano ancora i passaporti interni che pure era divenuti obbligatori.

Per questo motivo lo storico e membro dell’accademia delle scienze ucraina Stanislav Kulʹchytsʹkyy osserva che se la carestia in Ucraina ha avuto delle vittime designate, la loro identificazione non avvenne su base etnica bensì residenziale. Gli ebrei, colpiti dalla repressione staliniana più di altre minoranze (Azadovskii and Egorov 2002), sopravvissero alla carestia tanto quanto i russi urbanizzati mentre polacchi e bulgari (perlopiù concentrati in campagna) fecero registrare, in proporzione, lo stesso tasso di mortalità dei contadini ucraini (Kulʹchytsʹkyy 2002).

Conclusione

In definitiva, è certamente vero che la carestia ha colpito l’Ucraina ed altre periferie dell’URSS più duramente della Grande Russia e che, siccome li riteneva nazionalisti con tendenze cospiratrici, Stalin diffidasse dei contadini ucraini. “Eppure non esistono prove sufficienti per dimostrare che Stalin ha progettato la carestia per punire specificamente gli etnici ucraini” (Kuromiya 2006). Tutti o quasi concordano sul fatto che sotto il governo di Stalin milioni di sovietici siano periti a causa della fame; tuttavia, permangono distinguo significativi in relazione all’intenzionalità o meno dell’evento e sul grado di definizione delle vittime. Dai documenti fin qui raccolti e riportati in questo breve saggio, che certamente non si propone di sciogliere definitivamente ogni dubbio, emerge un quadro contrastato.

Sul piano teorico, infatti, è evidente che gli storici “ortodossi” – ossia i fautori della tesi della carestia-genocidio – hanno il medesimo diritto d’udienza accademica di coloro che ritengono l’intenzionalità improbabile o comunque non comprovata. A livello sostanziale, però, questa seconda tesi – sostenuta dalla storiografia “eterodossa” – si dimostra più coerente coi dati demografici, col contesto socio-economico dell’URSS post-guerra civile e con le mire straniere sull’Ucraina.

La storiografia solo di rado riesce ad emettere sentenze definitive e la carestia del 1932–’33 non rientra (ancora) tra questi casi. Tuttavia, la teoria genocidaria ignora del tutto il contesto internazionale in cui si colloca la carestia; quello stesso contesto storico-politico che, invece, è apparso essere “un fattore di importanza critica” (Kuromiya, 2006). Per questi motivi, dopo aver ripercorso le principali argomentazioni delle due scuole, è possibile affermare chiaramente che non ci sono prove sufficienti per rispondere affermativamente ai due interrogativi posti in apertura circa l’intenzionalità e la dimensione “etnica” della carestia. Eppure, i dubbi circa la possibilità che il comportamento (sia commissivo sia omissivo) delle autorità sovietiche abbia potuto aggravare, per inettitudine degli esecutori od altri fattori, la carestia permangono. Ad esempio, Mark Tauger – uno dei “più grandi conoscitori dei primi anni dello sviluppo agricolo nell’Unione Sovietica” (New Cold War 2015) – ha fatto notare che tra le cause della carestia vi figurano sia “disastri naturali” sia “azioni umane” (Tauger 2001). Tra queste ultime possono essere elencate la resistenza opposta dalla popolazione rurale nonché la velocità con cui la collettivizzazione è stata realizzata in Ucraina (Naumenko, 2016).

Come molta parte della storia dei paesi comunisti, non è ancora stata affrontata con sufficiente distacco. Anzi, il “rigetto” con cui i più antisovietici tra gli storici della corrente ortodossa hanno affrontato l’argomento è nient’altro che la manifestazione di un’animosità mai sopita in virtù della quale gli eventi vengono volutamente distorti e, dunque, ogni conclusione rischia di mancare di obiettività. Tuttavia, una cosa appare chiara: l’idea che essa sia stata una “alternativa economica alla deportazione” (Bruneteau [2004] 2006) non ha il valore di “verità” che si tende ad attribuirle nella storiografia ortodossa.

Aleksandr Kolpakidi conclude che il reale obiettivo degli attuali storici dell’holodomor sia quello di sviare l’attenzione degli ucraini dall’odierno reale “kholodomor” (“morte da freddo”): milioni di cittadini lasciati all’agghiaccio dalla liberalizzazione e decentralizzazione dei servizi municipali essenziali varata dal governo post-Majdan di Poroshenko in ossequio al Washington consensus (Kolpakidi and Prudnikova 2008).La sua strumentalizzazione fa capire quanto, se deformata in mala fede, la storia possa “fare più male che bene” (Rieff 2016). Si tratta dell’ennesimo esempio di uso politico della memoria storica in Europa, un continente oggi nuovamente preda di nazionalismi che si nutrono di tali falsità.

Estratti scelti

«Per sabotare la collettivizzazione, i Kulaki incendiavano i raccolti, appiccavano il fuoco ai fienili, alle case e ai fabbricati, uccidevano i militanti bolscevichi. Ma soprattutto i Kulaki volevano impedire l’avvio delle fattorie collettive distruggendo una parte essenziale delle forze produttive nelle campagne, i cavalli e i buoi. Tutta la coltivazione della terra si effettuava ancora con gli animali da tiro. I Kulaki ne sterminarono la metà. Per non dover cedere il loro bestiame alla collettività, essi l’abbattevano ed incitavano i contadini medi a fare altrettanto. Dei 34 milioni di cavalli di cui disponeva il paese nel 1928, nel 1932 ne restavano in vita soltanto 15 milioni. […] Dei 70,5 milioni di bovini, nel 1932 ne restavano 40,7 milioni, dei 31 milioni di vacche ne restavano 18 milioni. 11,6 milioni di maiali su 26 milioni superarono la prova della collettivizzazione. Questa distruzione di forze produttive ebbe, ovviamente, conseguenze disastrose: nel 1932 le campagne conobbero una grande carestia, causata in parte dal sabotaggio e dalle distruzioni effettuate dai Kulaki. Ma gli anticomunisti attribuiscono a Stalin e alla “collettivizzazione forzata” le morti provocate dalle azioni criminali dei Kulaki.»
(Ludo Martens. Stalin. Un altro punto di vista)

«durante i primi sei mesi del 1930, si registrarono in Siberia mille azioni terroristiche da parte dei Kulaki. Tra il 1° febbraio e il 10 marzo furono denunciate diciannove “organizzazioni controrivoluzionarie a carattere insurrezionale” e 465 “raggruppamenti antisovietici” di Kulaki che contavano più di 4.000 membri. Secondo quanto scrissero nel 1975 alcuni storici sovietici, “nel periodo compreso tra il gennaio e il 15 marzo 1930, i Kulaki organizzarono in tutto il paese (ad eccezione dell’Ucraina) 1.678 manifestazioni armate, accompagnate da assassinii di membri del Partito, dei soviet e di attivisti kolchoziani e da distruzioni di proprietà dei kolchozy”. […] Alla fine del 1930, si erano espropriate 330.000 famiglie di Kulaki appartenenti alle tre categorie sopra menzionate, la maggior parte tra febbraio e aprile. Non si conosce il numero dei Kulaki della prima categoria che furono esiliati, ma è probabile che le 63.000 famiglie appartenenti ad essa furono le prime ad essere colpite, non noto neppure il numero di esecuzioni in questa categoria.»
(Ibidem)

«Nello stesso mese il Partito iniziò a riesaminare i casi dei “dekulakizzati” mandati in Siberia. In pochi mesi questa revisione dei singoli casi consentì a decine di migliaia di famiglie, esiliate a torto, di tornare alle loro terre. Dopo l’uscita dell’articolo di Stalin il tasso di collettivizzazione crollò al 21,9%, per risalire al 25,9% nel gennaio 1931. In alcune regioni, dove maggiori erano stati gli eccessi dei burocrati locali, il tasso passò dall’83,3% al 15,4% (Terre Nere), oppure dal 74,6% al 7,5% (regione di Mosca). In altri territori il calo fu molto più mantenuto (nel Caucaso del Nord dal 79,4% al 50,2% del luglio 1930), a dimostrazione dell’estrema diversificazione delle realtà locali. In generale però ovunque il tasso risalì, seppur più lentamente, già nei mesi successivi, anche grazie a campagne di propaganda e di informazione più ponderate, con cui venivano diffusi tra i contadini le condizioni di lavoro e le attività che vigevano nei kolchozy. L’escalation della collettivizzazione che seguirà «non fu condotta con il rigore e il polso fermo della prima ondata e non ci furono campagne centralizzate per esiliare i Kulaki», nonostante continuassero a venire puniti i sabotatori della collettivizzazione, soprattutto in Ucraina, «dove, all’inizio del 1931, il numero totale degli esiliati […] era di 75.000». I risultati della collettivizzazione volontaria comunque furono sorprendenti: nel giugno del 1931 si era tornati al 57,1%; nel giugno del 1934 si arriva al 71,4%; 83,2% un anno dopo e 90,3% nel 1936. Ciò avvenne in parallelo con l’automatizzazione dell’agricoltura, imperniata sulla novità dei trattori messi a disposizione dei kolchozy: dalle poche decine di migliaia del 1930 ai 422.700 del 1936. Nonostante tutti questi sconvolgimenti sociali il raccolto del 1930 «fu eccellente», grazie a buone condizioni climatiche. Martens smentisce con dati alla mano l’affermazione che l’industrializzazione fu realizzata in questo periodo facendo pesare tutto sui contadini. Se è vero che le forniture di cereali alle città passarono dalle 7,47 milioni di tonnellate del 1929-1930 ai 9,09 milioni nel biennio 1930-31, è altrettanto vero che il numero degli abitanti delle città in questo periodo era passato (a causa dell’inurbamento intrecciato con l’industrializzazione) da 26 a 33,3 milioni, il che voleva dire un consumo alimentare urbano pro capite inferiore rispetto a quello del 1928. Inoltre gli investimenti statali nel settore agricolo aumentarono esponenzialmente: dai 379 milioni di rubli nel 1928 ai 4.983 milioni nel 1935. La quota destinata all’agricoltura nell’insieme degli investimenti passa dal 6,5% nel biennio 1923-24 al 18% nel 1935 (con picchi del 20 e 25% all’inizio degli anni ’30). I consumi alimentari medi dei kolchoziani migliorarono nettamente rispetto all’epoca zarista e in generale, come osserva Bettelheim(Charles Bettelheim. L’économie soviétique (Paris: Éditions Recueil Sirey, 1950)), «la schiacciante maggioranza dei contadini si è dimostrata molto attaccata al nuovo regime di coltivazione». Occorre segnalare che «al principio della guerra, nel 1941, i kolchozy e i sovchozy utilizzavano 684.000 trattori […], 228.000 camion e 182.000 mietitrici. […] quello che è certo è che, in un decennio, il contadino russo è passato dal Medioevo nel pieno del Ventesimo secolo.»
(Ibidem)

Il professor Grover Furr dell’Università di Montclair, ha scritto nel suo libro “Blood Lies: The Evidence that Every Accusation Against Joseph Stalin and the Soviet Union in Timothy Snyder’s Bloodlands Is False“, citando i lavori di ricerca del professor Mark. B. Tauger, un noto esperto di carestie scrive:
«L’anno delle due Rivoluzioni, il 1917, vide una grande scarsità dei raccolti provocare una carestia negli agglomerati urbani nel 1917-18. Negli anni ’20, l’URSS conobbe una serie di carestie: nel 1920-23 nella regione del Volga e in Ucraina e un’altra, nel 1923 nella Siberia occidentale.»
Grove Furr ha affermato poi a Sputnik:
«Le carestie degli anni ’20 e specialmente quella del 1928, furono il retroterra, l’immediato contesto, per la rapida e in parte forzosa collettivizzazione dell’agricoltura. Questo ciclo di carestie è cruciale in quanto ci permette di vedere che la collettivizzazione NON fu la causa della carestia del 1932-33. Le carestie accadevano regolarmente. Come Tauger prova e come io menziono in “Blood Lies“, la carestia del ’32-33 ebbe cause ambientali proprio come le altre carestie degli ultimi mille anni.»
Egli ha inoltre sottolineato che:
«L’unico modo per fermare questo ciclo millenario di carestie era quello di modernizzare l’agricoltura. Questo fu il grande trionfo della collettivizzazione, che pose fine al ciclo di carestie.»
Il professor Furr ha anche puntualizzato che i fautori del concetto dell’ “Holodomor” e quelli che, pur rigettando l’“Holodomor”, attribuiscono la carestia alla collettivizzazione, non hanno mai detto una parola su questo ciclo di carestie o sulle carestie degli anni ’20.
Il professor Furr ha aggiunto che:
«La carestia del 1932-33 fu l’ULTIMA carestia! Veramente fu un trionfo immenso che viene negato solamente perché fu ottenuto dai comunisti e da socialismo e non dai capitalisti e dal capitalismo.»

Nikolai Starikov, economista, scrittore e politico russo ha detto a Sputnik:
«In quel periodo la dirigenza sovietica fu obbligata a concentrarsi sulla creazione di industrie di cui lo stato sovietico mancava. Per adempiere a questo compito, il Cremlino mise in opera i cosidetti “piatilecki” (vale a dire i “piani quinquennali”). In realtà la soluzione del problema fu divisa in due fasi: per prima cosa [la dirigenza sovietica aveva pianificato] di costruire nuovi impianti industriali, per seconda cosa di accrescere bruscamente la produzione di raccolti agricoli attraverso la meccanizzazione dell’agricoltura, per pagare le importazioni di macchine utensili dall’estero con il danaro guadagnato grazie all’esportazione dei prodotti agricoli.»
L’autore ha inoltre notato:
«E a questo punto l’Occidente fece un tentativo di sottomettere l’Unione Sovietica.»
«Nel 1925 “l’embargo dell’oro” fu imposto all’URSS: le potenze occidentali rifiutavano di accettare l’oro come mezzo di pagamento per i macchinari industriali spediti in Russia. Di punto in bianco chiesero al governo sovietico di pagare il macchinario industriale con legname, petrolio e grano.»
I governi occidentali spiegarono questa loro decisione come provocata dal rifiuto bolscevico di ripagare i debiti dell’Impero Russo.
Tuttavia questo non è tutto.
Nei primi anni ’30 le più grandi potenze occidentali, USA, Francia e Gran Bretagna, instaurarono un embargo commerciale con l’Unione Sovietica, rifiutando di venderle alcunché se non avessero ricevuto in pagamento il grano.
Starikov ha spiegato più in dettaglio:
«Immaginate che l’Unione Sovietica sia stata “intrappolata” nel bel mezzo dei suoi sforzi a tutto campo per ricostruire e modernizzare la sua base industriale, e che proprio in quel momento i macchinari (di cui l’URSS aveva un disperato bisogno) potevano essere acquistati solo in cambio di grano.»
Nikolai Starikov ha detto a Sputnik, commentando la questione:
«Naturalmente, le élite politiche occidentali erano a conoscenza del problema [delle carestie].»
L’economista continuando ha sottolineato che:
«Proprio la richiesta occidentale di essere pagati dall’Unione Sovietica per i beni importati dall’occidente, può aver condotto ad un ulteriore deficit di grano in URSS.»
Starikov ha spiegato che, non avendo alcun altro strumento per rovesciare l’indesiderato regime comunista, le élite finanziarie dell’occidente pianificarono di istigare disordini interni per mezzo, in particolare, del deficit artificiale di cibo nello stato sovietico.
La necessità di utilizzare il grano come mezzo di pagamento rafforzò anche rafforzato la collettivizzazione sovietica, secondo l’economista.
Nel suo libro Crisis: How is It Organized (“Krizis: Kak Eto Delayetsya,” 2009), Nikolai Starikov richiama l’attenzione su fatto che la “guerra delle sanzioni” contro l’URSS da parte dell’Occidente coincise con la “Grande Depressione”.

Molto curioso il fatto che i detrattori di Stalin usino la propaganda nazista per accusarlo della carestia:
«È una questione di un certo significato che le accuse del cardinale Innitzer di genocidio da carestia furono ampiamente promosse nel corso degli anni ’30, non solo dal capo propagandista di Hitler Goebbels, ma anche dai fascisti americani. Si ricorderà che Hearst ha dato il via alla sua campagna contro la carestia con una trasmissione radiofonica basata principalmente sul materiale del “comitato di aiuto” del cardinale Innitzer. In Organized Anti-Semitism in America, il libro del 1941 che espone i gruppi e le attività dei nazisti negli Stati Uniti prebellici, Donald Strong osserva che il leader fascista americano padre Coughlin usò ampiamente materiale di propaganda nazista. Ciò includeva le accuse naziste di “atrocità da parte dei comunisti ebrei” e parti letterali di un discorso di Goebbels che si riferivano all'”appello di Innitzer del luglio 1934, che milioni di persone stavano morendo di fame in tutta l’Unione Sovietica”.»
(Tottle Douglas. Fraude famine and fascism. Toronto: Progress books, 1987, p. 49-51)

«L’Ufficio politico ritiene che la carenza di semi di grano in Ucraina sia molte volte peggiore di quanto descritto nel telegramma del compagno Kosior; pertanto, l’Ufficio politico raccomanda al Comitato centrale del Partito comunista ucraino di prendere tutte le misure a sua disposizione per prevenire la minaccia di non seminare [colture da campo] in Ucraina”. Firmato: Segretario del Comitato centrale» – J.STALIN
(Dall’archivio del presidente della Federazione Russa. Fond 3, Record Series 40, File 80, Pagina 58. Estratto dal numero di protocollo della riunione dell’Ufficio politico del Comitato centrale del partito comunista di tutta l’Unione (bolscevichi) “Riguardo alle misure per prevenire il fallimento della semina in Ucraina, 16 marzo 1932“)

«DOMANDA: È vero che durante il 1932-1933 a diversi milioni di persone fu permesso di morire di fame in Ucraina e nel Caucaso settentrionale perché erano politicamente ostili ai sovietici?
RISPOSTA: Non è vero. Ho visitato diversi posti in quelle regioni in quel periodo. Ci fu una grave penuria di cereali nella raccolta del 1932 dovuta principalmente alle inefficienze del periodo organizzativo della nuova agricoltura meccanizzata su larga scala tra i contadini non abituati alle macchine. A ciò si aggiunse il sabotaggio dei kulak espropriati, l’abbandono delle fattorie da parte di 11 milioni di lavoratori che andarono a nuove industrie, l’effetto cumulativo della crisi mondiale nel deprimere il valore delle esportazioni agricole sovietiche e una siccità in cinque regioni di grano di base nel 1931 . Il raccolto del 1932 fu migliore di quello del 1931 ma non fu tutto raccolto; Mosca, a causa delle promesse troppo ottimistiche dei distretti rurali, ha scoperto la situazione reale solo a dicembre, quando una notevole quantità di grano era sotto la neve”.»
(Anna Louise Strong. Alla ricerca dei sovietici da New Republic, 7 agosto 1935, p. 356)

«La conquista del pane fu raggiunta quell’estate, una vittoria strappata a un grande disastro. La vendemmia del 1933 superò quella del 1930, che fino ad allora aveva detenuto il record. Questa volta, il nuovo record non è stato fatto da un’esplosione di entusiasmo semi-organizzato, ma da una crescente efficienza e organizzazione permanente […] Questa cooperazione a livello nazionale ha battuto la siccità del 1934, assicurando un raccolto totale per l’URSS pari al massimo storico del 1933″. (Anna Louise Strong, L’era di Stalin. New York: Mainstream, 1956, pag. 44-45 Questo è ciò a cui ha portato uno studio sugli archivi russi. “Recenti prove hanno indicato che parte della causa della carestia fu un raccolto eccezionalmente basso nel 1932, molto inferiore a quanto suggerito da metodi di calcolo sovietici errati. I documenti qui inclusi o pubblicati altrove non supportano ancora l’affermazione che la carestia sia stata deliberatamente prodotta confiscando il raccolto, o che fosse diretta specialmente contro i contadini dell’Ucraina”.
(Koenker e Bachman. Eds. Rivelazioni dagli archivi russi. Washington: Library of Congress, 1997, p. 401)

«In considerazione dell’importanza delle scorte di cereali per comprendere la carestia, abbiamo cercato negli archivi russi prove delle scorte di grano pianificate ed effettive sovietiche all’inizio degli anni ’30. Le nostre fonti principali erano i protocolli del Politburo, inclusi i (“file speciali”, il più alto livello di segretezza), e le carte del comitato per le raccolte agricole Komzag, del comitato per i fondi delle merci e di Sovnarkom. I registri di Sovnarkom includono telegrammi e corrispondenza di Kuibyshev, che era a capo di Gosplan, capo di Komzag e del comitato per le riserve, e uno dei vicepresidenti di Komzag a quel tempo. Non abbiamo avuto accesso ai documenti di lavoro del Politburo nell’Archivio presidenziale, agli archivi della commissione per le riserve o agli archivi pertinenti negli archivi militari. Ma abbiamo trovato abbastanza informazioni per essere certi che questa cifra molto alta per le scorte di grano è sbagliata e che Stalin non aveva sotto il suo controllo enormi quantità di grano, che avrebbero potuto facilmente essere usate per eliminare la carestia.»
(R.W. Davies, M.B. Tauger, S.G. Wheatcroft. Stalin, grain stocks and the famine of 1932-1933, da Slavic review, vol.54, issue 3 (autumn, 1995), p. 642-657)

«La collettivizzazione, sebbene sia stata iniziata ed appoggiata dal centro, si è concretizzata, per la maggior parte, in una serie di misure politiche ad hoc, in risposta alle iniziative sfrenate degli organi di partito e di governo a livello delle regioni e dei distretti. La collettivizzazione e l’agricoltura collettiva sono state modellate meno da Stalin e dalle autorità centrali che dall’attività indisciplinata ed irresponsabile dei funzionari rurali, dalla sperimentazione dei dirigenti delle fattorie collettive che dovevano cavarsela da soli, e dalla realtà di una campagna arretrata. […] Lo Stato dirigeva per mezzo di circolari e decreti ma non aveva le strutture organizzative e il personale per imporre la sua via o per assicurare l’applicazione concreta della sua politica nella gestione delle campagne. Le radici del sistema di Stalin nelle campagne non vanno ricercate nell’estensione dei controlli dello Stato, ma nella stessa assenza di questi controlli e di un sistema amministrativo ordinato; ciò, a sua volta, faceva sì che la repressione diventasse lo strumento principale del potere nelle campagne. […] La rivoluzione non è stata realizzata attraverso canali amministrativi regolari; al contrario, lo Stato faceva appello direttamente alla base del Partito e ai settori chiave della classe operaia, allo scopo di aggirare i funzionari rurali. Il reclutamento di massa di operai e di quadri urbani e l’aggiramento della burocrazia miravano a fare delle ardite sortite politiche per gettare le fondamenta di un nuovo sistema.»
(Viola Lynne. The best sons of the Fatherland: workers in the vanguard of soviet collectivisation. New York: Oxford university press, 1987, p. 215-216)

Bibliografia e fonti

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Note
  1. Tra il 1920 ed il 1922, Čeka fu il nome del corpo di polizia affidato da Lenin a Feliks Ėdmundovič Dzeržinskij (1877–1926) per combattere i nemici dell’URSS. I suoi membri erano detti “čekisti”, termine conservatosi nell’uso, nonostante la riorganizzazione della Čeka in GPU, NKVD, MGB e KGB, ed ancora in uso[]
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